Un accogliente albergo in montagna, un campo da tennis, piccoli e sfuggenti amori, le parole sperse al vento sui sentieri di una villeggiatura di tanti anni fa. “Come se quel mese di agosto avesse segnato lo spartiacque, fra il calmo fluire dell’infanzia e l’accavallarsi disordinato e prorompente di nuovi sentimenti”. Eccolo l’incipit, denso di attesa e di sorprese, del godibilissimo ed acre, nel contempo, romanzo di Rosetta Loy, dal titolo assai nostalgico “Ahi, Paloma” (pp. 64, casa editrice Einaudi, costo 5.16 euro), agile volumetto, che non si limita a raccontare il passaggio esistenziale, che infinite generazioni al mondo hanno vissuto e seguitano a vivere, ma si addentra anche in un’epoca di timori, incertezze e perplessità .
Quell’estate di vacanze cadeva, infatti, nel famigerato 1943. Un tempo sospeso ed ermetico: il fascismo è caduto, non si sa che cosa accadrà , ma si sa che dovrà accadere, prima o poi, giacchè gl’indizi nell’aria sono maturi. Un gruppo di ragazzi in vacanza in un paese della Val d’Aosta, sfollati dalle città bombardate, passano la loro ultima incosciente, spensierata, sbarazzina estate. In realtà, si stanno preparando, cruciali segni lo fanno capire, a compiere il salto delle scelte importanti, nel terribile mondo degli adulti e della guerra. Un libro struggente, questo di Rosetta Loy, spesso commovente: una storia capace di scuotere e coinvolgere chi ancora conosce le categorie della sensibilità e dell’empatia e, pensa agli Altri non come a mezzi per rafforzare il proprio io, bensì come a fini della propria capacità di dialogo, incontro, affetto. Quella ragazzina di 12 anni, che sembra affacciarsi, a dir la sua, dallo spigolo di un palcoscenico, nell’età in cui sta per diventare donna, più che protagonista (la ragazzina è anche l’io narrante del romanzo), si trasforma, simbolicamente, nella voce di un coro di eterne ragazzine, con i suoi delicati vestitini da bambina, “di cotone a fiorellini con due funghetti di legno attaccati al colletto di piquè”, come ben riporta l’infallibile capacità descrittiva della Loy, oppure con gli abiti da grande, “di stoffa sintetica tra il blu e il viola, su cui era disegnato un fitto intreccio di vermetti rosso elettrico”.
Assoluto e superiore protagonista, come in tutte le opere letterarie della Loy, è il tempo, ma anche il coraggio delle scelte e il destino degli uomini che procede e sorprende, sempre, in maniera bizzarra,…”La memoria gioca strani tiri- sottolinea Rosetta- sovrappone spesso un’immagine a un’altra, il dopo al prima”. La Loy non è, come può sembrare all’apparenza, una scrittrice della memoria, che per lei non è per niente salvatrice o pacificatrice dell’animo umano. Non nutre o coltiva malinconie retroattive, non desidera recuperare il già compiuto: ella ha affetti radicati, profondi, inossidabili; usa il passato in nome del presente; le rodono il cuore le ingiustizie non sanate, le pene sommerse e non risolte, ovvero quello che avrebbe potuto essere e che non è accaduto. Non indulge, non temporeggia, Rosetta è spesso brusca nel raccontare gli epiloghi, le immancabili fini, quasi non volesse patire lei stessa di più, prima di risparmiare al lettore, lo stillicidio dei lunghi addio e delle eterne illusioni.
Si chiamano Pietro detto il Pirro, Milly, Ettore, Paola, Marilù, Augusto, Giorgio detto il Ragno, Laura, Etta, i ragazzi della storia. Amici, cugini, fratelli, tutti allineati in relazioni di parentela, di amicizia, di affetto. Fanno passeggiate, giocano a tennis, s’innamorano e, sullo sfondo della loro apparente e serena quotidianità , affiora sempre quella malinconica canzone, che gira sul grammofono a manovella: “Ahi, la Paloma blanca come la nieve, come la nieve, ahi, m’ha rovinato l’alma, come me duele, come me duele…” Che cosa può accadere in un paese di montagna, d’estate, durante la guerra? C’è poco da mangiare, scarseggiano tutti i beni di primaria necessità , le città della pianura, Torino, Milano, rosseggiano, distrutte dagli incendi delle bombe, lanciate dalle fortezze volanti. La ragazzina, a cui la Loy affida il compito di raccontare le vicende, è infelice, innamorata senza convinzione, a momenti sgraziata, a momenti cupa. Rosetta Loy l’analizza a fondo: la scrittrice ama e vive di particolari anche i più impercettibili, la marca delle scarpe, delle racchette da tennis, i colori degli occhi, dei tramonti, dei vestiti dei villeggianti. Attraverso le sue descrizioni minuziose e vivide, il Grand Hotel Brusson diviene un microcosmo, attivo e frenetico.
Poi arriva, in quell’estate cruenta, l’armistizio dell’8 settembre 1943, l’esercito si sfacia, il re scappa con Badoglio, tutto diventa ansioso e precipitoso. I ragazzi discutono, si animano, si schierano, litigano: l’Italia ha tradito l’alleato germanico? L’Italia si è soltanto ritratta da una guerra insostenibile? C’è aria di smobilitazione nel vecchio albergo di montagna, mentre Radio Londra trasmette strani messaggi cifrati, che suonano come, “La mela è rossa”, “Giuseppe ha il morbillo”. Uno dei ragazzi, Giorgio, prima ancora di avere l’età consentita, si arruola nelle Brigate Nere, a Milano e, muore per una sventagliata dei mitra partigiani, una notte, che sta tornando in caserma su un camion. Pietro va in montagna, in una formazione partigiana. Come i suoi personaggi, Rosetta non è neutrale, giacchè non sono uguali e, sempre di equo peso le scelte, com’è¨ di moda affermare oggi. Lei sarebbe stata dalla parte della libertà e della giustizia, contro la menzogna e l’arroganza. La parte che anche la sottoscritta preferisce. Senza se e senza ma.
Il protagonista, alla fine del piccolo libro di ampio respiro, diventa, suo malgrado, un altro dei ragazzi, Ettore. Ebreo, barricato in casa in attesa di salvarsi in Svizzera. A Verrès, a due passi dall’albergo, giunge un reparto di crudeli SS: Ettore ha paura e chiede a Paola, la ragazzina, di potersi nascondere in uno stanzone, più sicuro, della sua famiglia. Paola si reca a chiederlo alla madre, che risponde categoricamente di no: la “propria pelle conta più di tutto e di tutti”. Ettore, venduto da una spia in cambio delle 5000 lire che i tedeschi pagavano per ogni ebreo, viene catturato dalle SS, incatenato per i polsi, senza alcuna pietà. Non si saprà più nulla di lui, nei fatti e nel presente. Ma il tarlo comincia a lavorare nelle coscienze vili e mancanti di alcuni e il ragazzo diventerà, come scrive in una sentenza gelida la Loy, “un Ettore che tornerà negli anni”, nei barlumi della memoria, giacchè restano sulla scacchiera della vita, come pezzi che non si possono giocare, il rimorso, il rimpianto, il disprezzo per la zona grigia dell’anima e della società.
Una delle qualità più spiccate dei romanzi di Rosetta Loy è che sembrano tutti legati da un unico “fil rouge”, il filo rosso del coraggio di essere uomini, non in condizioni di assoluta normalità, ma proprio laddove irrompono il pericolo, il dolore e la minaccia. Romanzi che s’incastrano l’uno all’altro, perfettamente, in ordine interiore; così quest’emozionante “Ahi, Paloma” sembra quasi un pezzetto, una porzione del precedente, assolutamente splendido, “La parola ebreo” del 1997, un amaro saggio-narrazione sulla persecuzione ebraica e sulle responsabilità individuali e collettive, su quanti hanno fatto finta di non vedere e si sono voltati, per comodità , dall’altra parte: un elenco storico lungo, ahinoi, che va da Pio XII fino alla mamma di Paola, che lasciò solo Ettore e, si dannò la coscienza per sempre.
E Rosetta sembra concludere con una domanda aperta e fondamentale, che, con immediato slancio, rivolgo ai miei affezionati lettori…”Siamo certi, fino in fondo a noi stessi, di aver agito, con onestà totale o solo per convenienza egoistica…?” Ai miei beniamini, come di consueto, il supremo e salomonico giudizio…Ma, non temete, c’è sempre tempo per rinascere buoni, autenticamente buoni, se non lo siete già d’indole, per vostra fortuna!! A presto! Vostra Elena P.
bellissimo!!