Ai confini della Normandia, la villa di Giverny fu perno visivo ed ispirativo del padre dell’Impressionismo, monsieur Claude Monet, lungo tutta la sua interminabile attività pittorica. Un catalogo inesauribile e rigoglioso di piante, fiori, giochi d’acqua, colori e luci: per quasi 40 anni, in ogni stagione e momento del giorno, con una maniacalità incontrollata, fu il soggetto preferito dall’artista.
Giverny: una parola, una vita. Qui, infatti, Claude Monet morì nel 1928, alla veneranda età di 88 anni. Di quella lunga esistenza, fino all’ultimo attivissima, più della metà fu trascorsa a Giverny: in una casa di campagna dove s’installò, quarantatreenne, nel 1883, per non cambiare più residenza. Vedere quella casa è capire dell’uomo Monet e della sua arte un’infinità di cose, che altrimenti sarebbe difficile e, forse anche impossibile afferrare. E ciò, non perché un uomo, come un animale, finisca prima o poi per somigliare al guscio che lo contiene. Questa è una verità biologica abbastanza ovvia, da valere per chiunque. Ma nel rapporto di Monet con la sua dimora e il suo giardino, c’è inevitabilmente molto di più. Siamo di fronte ad un caso quasi unico, non di assimilazione o compenetrazione, ma d’invenzione artistica finalizzata.
Monet era un uomo che viveva intensamente dei suoi affetti, ma addirittura freneticamente del suo lavoro. E Giverny è il suo motore interiore ed ideale: non una semplice abitazione in un contorno ameno, ma un mondo completo, programmato e creato per essere la matrice vivente di quello sfarfallare d’illusioni ottiche, che sono i suoi esemplari pittorici. Era di maggio quando Monet, firmato il contratto d’affitto per dieci anni, s’installò nella casa che gli era piaciuta a prima vista. Fino ad allora ne aveva cambiate una quantità inverosimile, un po’ per irrequietezza tipica d’artista, ma molto di più per la cronica mancanza di denaro, che lo sradicava e incalzava su e giù, lungo la Senna, a valle di Parigi, come un’anima in pena. Il soggiorno più lungo era stato ad Argenteuil, luogo di barche e di trattorie sull’acqua a 15 km. dalla capitale, dove era rimasto dal 1872 al ’77, navigando e dipingendo (spesso con l’amico Renoir), in un battello attrezzato come studio galleggiante. Sei annni, tutto sommato, di respiro e relativa pace, fra i tanti dispiaceri che gli venivano dai Salons ufficiali, dai critici spiritosi e dal pubblico irriverente. Poi, non va dimenticato, c’era stato il crollo di tutto il suo mondo emotivo: abitudini ed affetti travolti e, l’impianto drammatico dell’avvio di una seconda vita.
Tutto era cominciato (della serie classica, “Venga a prendere un caffè da noi!) con un invito in un castello sontuoso, dotato di ancora un più incantevole giardino da dipingere, proprietà di un avventuroso uomo d’affari, Ernest Hoschedé, il quale era anche un discreto amatore della pittura corrente, capace, quindi, di prodigarsi nell’acquisto di quadri impressionisti. In quel castello, a Montgéron, Monet e la bruna Camille, la bella moglie e modella, trascorsero, col figlio Jean di dieci anni, buona parte dell’autunno del 1876. Fu una piacevole vacanza e non mancarono risvolti inusuali: il pittore s’innamorò della moglie del suo ospite, Alice e, lei di lui. Camille, sicura del suo uomo, non sembrò soffrirne: forse non se ne accorse neppure. Alice come persona piaceva anche a lei, erano diventate amiche.
Subito dopo successe di tutto, come in un romanzo di Dickens. Monet s’infastidì di Argenteuil, troppo piena di fabbriche e, traslocò a Parigi, lasciandosi dietro come una cometa, un’infuocata scia di debiti. Camille partorì un altro figlio, Michel, rimettendoci, inesorabilmente, la salute. Hoschedé si rovinò con speculazioni sbagliate, dovette vendere ogni suo bene e riparare all’estero, per sfuggire ai creditori. Alice, con sei figli, cadde addosso al tartassato pittore, il quale rischiava di non potersi comprare nemmeno i colori e le tele. Le due famiglie affittarono per pochi franchi una casetta a Vétheuil, in un’ansa della Senna e, vi passarono, come sardine stipate, un anno spaventoso, con Camille che si andava spegnendo, di giorno in giorno. Alice la curò con la premura di una sorella fino alla morte, nel settembre 1879. Dopo di che Hoschedé, rimpatriato, venne a riprendersela. Ma Alice gli sbattè la porta in faccia e decise, sfidando lo scandalo, che restava, bambini e tutto, con l’amato vedovo. Da Vétheuil, nel ’71, l’intera tribù si trasferì un po’ più a monte, a Poissy, che Monet prese subito in uggia. Per quasi due anni vi restò, mordendo il freno. E finalmente, un mattino d’aprile, la scoperta di Giverny. Era quello, finalmente, il Paradiso tanto agognato?
Ottanta chilometri da Parigi, ai confini della Normandia (dove Claude era cresciuto e tornava d’estate a dipingere le scogliere, a Belle-Isle o ad Etretat), Giverny guarda a mezzogiorno, dalla riva destra della Senna. Alle spalle ha una lingua di colline calcaree, dai cui meandri sbuca l’Epte, per gettarsi nel gran fiume. Davanti, umidi prati la separano dalle golene, segnate dall’argento dei salici. Sull’opposta riva, poco più a valle dove un ponte scavalca la Senna, la cittadina di Vernon ha per sfondo una lunga dorsale di alture boscose, per Giverny sempre in controluce. “Le Pressoir”, questo era il nome della proprietà , si estendeva in dolcissimo pendio fra il corso del villaggio (accesso al retro Della casa) e l’antico Chemin du Roy (oggi provinciale da Vernon a Gasny), su cui s’apriva il cancello principale. Il fondo, di 92 are, era allora un terreno scabro, come un alro: un po’ d’orto, due o tre meli, una concimaia, qualche rosaio inselvatichito…Praticamente tabula rasa: l’ideale per monsieur Claude!
Che cosa sia diventato quel terreno in mano all’artista, soprattutto dopo il 1891, quando egli ne divenne il proprietario, lo raccontano i suoi quadri, a più riprese, “en plein air”, come prescriveva la poetica impressionista. Ci sono poi altri risvolti, che forse le parole dicono meglio dell’espressione pittorica. Per esempio, che la trasformazione del giardino e dell’abitazione andò di pari passo con la trasformazione dell’uomo; o piuttosto dell’aspetto dell’uomo, perché nella sostanza Monet rimase fino all’ultimo irriducibile, fierissimo, fortissimo e nevroticissimo lottatore di sempre, convinto di poter sfidare il Sole ed uscirne, follemente, vincitore sulla tela. Ma mano a mano che i sentieri del “clos” venivano ritracciati, le aiuole disegnate, gi alberi e le piante ordinate a vivai di chiara fama, le tinte delle fioriture accostate con intenzioni sapienti, così la persona del pittore andava perdendo la sua selvatichezza, la stoffa dei suoi calzoni s’ammorbidiva, gli stivalacci diventavano stivaletti eleganti, le giubbe prendevano taglio e forma e, le camicie si ornavano ai polsini di merletto.
Un po’ era il benessere che finalmente gli arrivava col successo delle mostre e, l’imprevedibile capacità che s’era scoperto di contrattarsi, con vera astuzia normanna, fra i suoi mercanti Petit e Durand- Ruel. Ma sensibilmente contava l’effetto di Alice, che l’aveva, per così dire, “riprogrammato”. Camille era stata la giusta compagna del “bohèmien”. Alice era una dama della gran borghesia, la quale sapeva arredare una casa, ordinare un pranzo, far rigare la servitù, ricevere gente di riguardo e fare del suo Claude un compiuto “gentleman farmer”, se non ancora un “dandy”. Solo alla barba era concesso di straripare, sempre più patriarcale, via via che s’imbiancava.
Era curioso ed anche un po’ commovente ritrovare l’Orso Monet in quella nuova scorza mondana. Tanto più che l’Orso, per quanto concerneva il suo lavoro artistico, era ancora la stessa forza caparbia della natura, la stessa indole irriducibile, che a Belle-Isle veniva scambiata spesso per un pescatore della Manica. Si alzava alle quattro, si calcava in testa il suo cappelluccio rotondo e, per i prati bui con tutti i suoi armamenti, se ne andava sguazzando nel fango fino alla barca-studio, che s’era approntato in un’insenatura, per salparla ed essere in mezzo alla Senna, in tempo per cogliere i primi barlumi dell’alba. Quando era in vena, trascorrera fuori l’intera giornata: non lo fermavano, né il gelo né il solleone. Quando non era in vena, schiumava di furore e di disperazione come un bambino irresponsabile. Spaccava le tele dipinte (qualche volte a dozzine, in scene tali da rasentare l’isterismo femminile, davvero un brutt’affare!!); si metteva sotto i piedi il cavaletto e ruggiva, più che parlare. Alice e i bambini non s’impressionavano e imperturbabili si tenevano alla larga, finché la crisi era passata (Iddio, miei cari Amici-Visitatori, ci preservi dai nevrotici-che, affetti da manie di egocentrismo e da mitomania latente…Spesso proiettano sui malcapitati, in tal mondo nefasto, le loro frustrazioni e le loro immense fragilità !!!)
E’ a Giverny che Monet si fa sempre più catturare dall’idea dei “dipinti in serie”, nella convinzione profonda e ciecamente ambiziosa, che, attraverso la serializzazione di un medesimo soggetto, si potesse “imprigionare” sulla tela tutti gli aspetti cangianti e mutevolissimi della natura. Ecco allora che ai “Pagliai” del 1891, seguono “I pioppi”, le “Mattinate sulla Senna”, “Il ponte giapponese”, “I viali del giardino”, “La casa fra i rosai”, “Le glicini”, “Le ninfee”. Vale a dire, insiemi di tele pensate per essere esposte e guardate nell’insieme: la “serie” come l’espediente più prossimo e più facile, per far dire alla sua pittura quel che lui voleva che dicesse. Peccato, non si fosse accorto dell’evidenza: nelle due dimensioni di una tela quel “tesoro” non poteva essere detto, perché gliene sarebbe occorsa non una terza, ma una quarta dimensione, ovvero il Tempo. Era questo ormai che Monet sempre più ostinatamente voleva agguantare con i suoi colori e i suoi pennelli.
Il tempo nella misura infinitesima di un’apparizione senza durata e senza ritorno, istantanea e così breve da togliere alle cose viste ogni grevezza di realtà fisica e, tramutarle nel battito di un ricordo, in pura apparenza ed illusione. E per inseguire una tal ricerca, che lo portava al di là dell’impressionismo in una terra di nessuno, non c’era niente come il giardino, con la sua esplosione di apparenze effimere, condizionate da infiniti fattori mutanti. Da Giverny, Claude viaggiava e si spostava ancora volentieri e, sempre per dipingere: Bordighera, Londra, la Norvegia…Ma col passare degli anni quelle divennero evasioni via via più spaziate, fino a cessare. Il vero laboratorio era il giardino: anzi, i giardini. Perché presto al “clos normand”, adiacente alla casa con le serre e il secondo studio costruito in un corpo a parte, si era aggiunto, al di là della provinciale e dei binari, il “giardino d’acqua”.
In quella striscia di terreno comprata nel ’93, Monet era riuscito, dopo estenuanti trattative con la locale municipalità , a deviare un ramo dell’Epte, per formare uno stagno. Un ponte verde di legno, copiato da una stampa giapponese e vestito di glicini, sormontava una strettoia: salici piangenti pendevano sull’acqua; intorno stormivano alberi e svariavano fiori d’ogni specie. Un canotto era attaccato fra le erbe palustri a un minuscolo imbarcadero e, il vecchio vi passava le giornate a dipingere le ninfee e i riflessi delle nuvole vaganti, che si confondevano con le trasparenze dell’acqua in immagini, dove l’occhio sprofondava e si perdeva all’infinito.
Una vita lunga porta il peso di veder morire troppa gente. Erano morti gli amici pittori, da ultimo Renoir. Erano morti il figlio Jean e una figliastra. Dal 1911 s’era andata anche Alice. Monet era rimasto solo, accudito dalla figliastra Blanche Hoschedé. Delle antiche ricchezze del cuore, gli restava solo l’amicizia del coetaneo Georges Clemcenceau; il “Tigre” che aveva portato la Francia alla vittoria nella grande guerra e, che ora lo spronava a suggellare la sua vita con la donazione allo stato di una realizzazione pittorica peculiare, che fosse in qualche modo il suo testamento d’artista.
Per quella realizzazione, la serie delle “Nynpheas” di cui un esemplare illustra quest’articolo, il vecchio Claude si tormentò per anni, in un terzo enorme studio costruito apposta presso la casa. Stava diventando cieco: a momenti vedeva tutto giallo, a momenti tutto azzurro, a momenti non vedeva più niente dall’occhio destro e, quasi una totale oscurità dal sinistro. Finché un’operazione di cataratta e la scoperta d’altri occhiali speciali non gli restituirono un po’ di vista. Ma più ancora che con le tenebre, la lotta era con l’amor proprio e l’orgoglio smisurati, con lo scoraggiamento e la sua mania di distruggere e di rifare all’infinito. Non era certo ancora di aver chiuso con quelle eteree ninfee quando morì, nel novembre del 1926, ridotto all’osso da un tumore. Tutti sapevano, l’aveva sempre professato, che gli sarebbe piaciuto essere sepolto in una boa, fra cielo e mare, cullato dal perpetuo movimento dell’acqua. Ma ahimè, lo misero sottoterra, lontano dal Sole.
Morbo velenoso quanto la gelosia, la superbia corrode anche i propositi dei migliori artisti. Le “Ninfee” monetiane non hanno alcuna aderenza con la vividezza naturalistica, come si proponeva il maestro dell’Impressionismo: sembrano fluttuare in un sogno indistinto ed evanescente. Ben altra potenza espressiva e pregnanza realistica possiede la Serie di Ninfee, realizzate, da par suo, dal nostro Patron, l’inimitabile Beppe, lungo un suggestivo corso d’acqua, nei pressi dei pittoreschi laghetti Revine: eccolo il capolavoro-scatto autenticamente impressionista, che spero, quanto prima, possa svelare tutta la sua assoluta eccellenza visiva, comparendo nel meraviglioso Fotoblog…Ma questa è un’altra storia, miei perspicaci Lettori: una Storia alla “Nikonista caravaggesco”, che al pari del Grande lombardo, trabocca di genialità e non conosce superbia!!! Ve la racconterò a tempo debito! A presto! Vostra Elena P.
Ottimo.