Il pomeriggio del 9 settembre 1901, il conte Henri de Toulouse-Lautrec-Monfa, appena dimesso da un manicomio e distrutto dalla sifilide e dall’assenzio, è seduto in poltrona mentre la madre gli tiene la mano, amorevolmente, nel salotto del castello di Malromò, una delle proprietà di famiglia, vicino a Bordeaux. Nella stanza accanto il padre Alphonse, detto il “principe nero”, un uomo che eufemisticamente si potrebbe definire bizzarro, discendente da una delle più antiche casate di Francia (vi basti sapere, che ha il diritto di portare gli speroni anche nella cattedrale di Reims) e che ama travestirsi ogni giorno in maniera diversa, fa rumori molesti cercando di uccidere le mosche, con una frusta di sua invenzione. Henri ha un moto di stizza e sbotta: “Toujours le vieux con” (che vi tadurrò, in maniera politicamente corretta, “sempre il vecchio rompiscatole”). Poi si accascia e muore, tra le braccia della madre che lo aveva immensamente amato e compreso, fin dal primo vagito.
Qualche giorno prima, a Parigi, un allora sconosciuto pittore spagnolo appena esordiente, diciannovenne e pieno di impulso creativo, di nome Pablo, Francisco, Juna, Nepomuceno, Maria de los Remedios, Ruiz Picasso, fanatico ammiratore di Toulouse Lautrec e della sua verve pittorica, aveva cominciato a dipingere un grande quadro, dedicato al Moulin de la Galette, luogo frequentato e venerato con assiduità dallo stesso Henri. E per l’arte, sulla scia di Lautrec, sarebbe cominciata un’altra leggenda.
Ma Picasso non fu certo il solo artista a recepire la lezione rivoluzionaria (non soltanto pittorica, si badi bene, ma di totale ribaltamento verso la vita, che va aggredita, domata e vissuta con incontenibile intensità) del “nano bevitore”, il giovane e vitalissimo nobiluomo di Albi, il nostro piccolo di statura, ma incommensurabile nel talento, conte Henri, che abiura e rigetta il delicato e smunto naturalismo impressionista, per mescolarsi nel ritmo vorticoso e vertiginoso di Montmartre, ove riesce a cogliere dai volti di alcolizzati, teatranti, artisti, prostitute bellissime o malconcie, innamorati traditi e donzelle corteggiate, proprio quelllo slancio, quella brama di vita che altri continuavano ancora a cercare nei paesaggi e negli stagni.
Irrefrenabile ed allegrissimo Henri, che pareva beffarsi delle tragedie e degli sgambetti della sorte; particolarissimo con quegli occhi perennemente vividi di fronte alle emozioni mirabolanti di un bacio, di una gonna che volteggia, di una ciocca che ti accarezza la gota, di un sorriso di fanciulla che pare dischiuderti una promessa di felicità. Colui che anteponeva a tutto la rappresentazione della figura femminile, colta sempre in espressioni di estrema verità: donne frizzanti, donne sfatte, donne amate, donne vendute, donne appariscenti, donne di classe, donne gaudenti, donne abbandonate, che sembrano emanare dalle sue impareggiabili tele non un odore di vizio o di perdizione, ma semmai di lenzuola mal lavate dove la solitudine ha marchiato l’intero giaciglio, inesorabilmente (Renoir, moralista e francamente molto borghese, che lo disprezzava, lo chiamò “il pittore delle prostitute”). In realtà, per me che ne sono una conoscitrice profonda ed esente da qualsiasi pregiudizio moraleggiante, l’arte di Henri nasceva essenzialmente dal culto per le donne alla deriva di sè stesse, disorientate nel “mare magnum” dell’ipocrisia, viste, a tratti, forse con impietosità e con compassione, ma sempre con avvolgente affetto. Giacchè il “piccolo conte”, scapestrato e “canaglia” negli atteggiamenti, era in realtà un buono d’animo, teso a cercare se non proprio l’amore, la simpatia e la vicinanza emotiva con l’universo delirante del godimento e dei sensi…E la vita c’insegna che, spesso dietro a tali atteggiamenti albergano una fragilità e un senso di smarrimento infinito.
Ma la lezione di Toulouse Lautrec è anche peculiarmente artistica: per primo, si è consacrato anima e corpo all’elaborazione di un tipo d’immagine che della modernità fosse il calco più veritiero e funzionale: non più solo dipinti o tele, ma anche le sue celebri ed inconfondibili “affiches”, ossia manifesti cartacei, derivati dal genere della caricatura, che hanno individuato nelle esigenze dettate dalla comunicazione di stampo moderno il motivo dominante dell’arte tra Ottocento e Novecento. E fu il primo, con un’operazione che i francesi definiscono di “dècloisonnement” (lo si puà tradurre come abbattimento delle pareti divisorie), a capire che non esiste una netta demarcazione tra arte “alta” e arte “commerciale” (grafica pubblicitaria, fumetti, locandine), ma, per dirla sempre alla francese, che “tout se tien”, tutto si conserva. Ed ecco allora che perfino un Andy Warhol, figlio del Novecento, con i suoi ritratti seriali della Pop Art, può, in certo senso, essere considerato un epigono di Toulouse-Lautrec.
Ecco perchè ho voluto dedicare a questo antesignano dell’Arte moderna, a colui che ha aperto la strada verso una maniera innovativa di concepire la comunicazione per immagini in tempi impensabili, come la fine dell’Ottocento, questo mio articolo d’esordio “post-vacanza”; giacchè, noi cultori della libertà espressiva, siamo un po’ tutti figli del solco tracciato dal coraggio e dalla sfrontatezza di Henri. Tributo doveroso giunge anche da pittori italiani e stranieri di fama indiscussa come Dix, Klimt, Schiele, Bacon, Signorini, Viani, Zandomeneghi, Boccioni, che sono in qualche modo idealmente debitori a quel genio che Degas, il quale gli volle un gran bene, (ma, mi chiedo e vi chiedo, come non si poteva amare un estimatore della vita, senza limiti e senza misura, come Henri?!!) chiamava, con tenerezza, “mezza matita”.
Quando la dolce Adè le Tapiè de Ceyleran comunicò al marito, “principe nero” per il suo umore tetro e sinistro, quel giorno vestito da antico romano, che aspettava un bambino, lui l’ammonì: “Cercate di ricordare, mia cara signora, che in casa Toulouse-Lautrec è meglio un rospo maschio che una cristiana femmina”. Ma il bimbo che venne al mondo ad Albi il 24 novembre 1864 e, al quale venne imposto il nome di Henri in omaggio al conte di Chambord, per i legittimisti ultimo erede diretto al trono di Francia, non aveva proprio nulla del rospo. Era uno splendido maschietto dai grandi ed intensi occhi neri, che la servitù chiamava “le joli bèbè”: il grazioso pargoletto. Niente, ahimè, sul volto e nelle minuscole membra perfette del piccolo, lasciava presagire che, attraverso il nefasto “imprinting”-marchio genetico (i genitori erano cugini primi, le nonne sorelle, un cugino era nano e altri tre deformi) avrebbe ereditato quella maledizione congenita, tale da consegnarlo ad una crescita rallentata e naneiforme, di cui Henri, in primis, se ne prendeva gioco, autodefinendosi “mezza bottiglia”.
Nonostante la sottile melanconia della madre e le progressive bizzarrie del padre, per quattordici anni Henri crebbe felice, spensierato, manifestando una strabiliante e precoce propensione per il disegno (“credo di essere sempre stato una matita, anche nel ventre di mia madre”, diceva di sè) e arrivando alla statura di un metro e quarantacinque. E lì si sarebbe fermato. Appunto a quattordici anni cadde per la prima volta da una sedia non tanto alta e si ruppe una gamba. L’anno dopo scivolò sul pavimento e si procurò una seconda frattura. Gli arti non recuperarono la normalità e le gambe, invece che allungarsi, si stortarono. Mentre busto e volto, a poco a poco, si trasformarono in quelli di una persona adulta.
Il “piccolo conte”, come ormai lo ha ribattezzato l’intera servitù, non è nè alto, nè particolarmente avvenente, ma in lui pulsano genialità e talento senza fine e, nonostante dubbi e ripensamenti momentanei, Henri ne è perfettamente consapevole. Così all’età di diciassette anni, nulla lo ferma e si trasferisce a Parigi. Dapprima entra nell’atelier di Bonnat, un pittore conservatore, che intimamente lo disprezza e ne invidia il potenziale creativo, rimanendogli nemico a vita; poi passa nella bottega di Fernand Cormon, noto ubriacone, ma molto aperto verso le avanguardie. Qui incontra e frequenta Van Gogh, di cui sarà sempre fedelmente amico e il cui fratello, Theo, gli acquisterà il primo quadro. Conosce pure Pissarro, come ho già detto il pungente Degas (suo grandissimo amico, ma dalla lingua tagliente, che non potrà esimersi dal dire “Ci vestiamo allo stesso modo, ma Henri ha solo mezza taglia”) Gauguin e Seurat.
Ma soprattutto comincia a frequentare quegli ambienti che saranno lo sfondo di tutta la sua vita e di tutta la sua vicenda artistica: il circo Fernando, il cabaret dell’anarchico Aristide Bruant (per il quale disegna la prima locandina), il Mirliton, il Moulin Rouge e il Moulin de la Galette. E qui comincia la leggenda rovente ed appassionante del “nano bevitore” (umana, artistica e anche un po’ hollywoodiana, al pari di Caravaggio, Van Gogh, Modigliani): Henri beve, vive di notte, lavora moltissimo e soffre (scrive alla madre con cui ha un rapporto di totale confidenza: “Non sono affatto sulla strada per diventare un rinnovatore dell’arte francese. Combatto contro un terrificante foglio di carta sul quale non mi riesce di tracciare nulla di buono…”Eccola la fragilità che spesso accompagna i Geni). E mentre combatte prosegue la discesa agli inferi.
Da taluni è stato detto che si è calato nella suburra, per desiderio di autodistruzione e per divorare sè stesso. Come Caravaggio, libero da tutto e da tutti, ma in fondo schiavo di sè stesso. In parte forse corrisponde a verità, ma vi è sceso all’inferno con l’istinto dell’antropologo, oltre che dello straordinario pittore. E’ sceso in quelle che un artista, per certi versi assai simile a lui come Proust, chiama “le città della pianura”. Quei luoghi che mai e poi mai un individuo del suo censo, se non fosse stato per qualche verso un “maledetto” come lo si etichettava allora (o, dirà la sottoscritta, un “benedetto” dal desiderio di conoscere ogni piega della vita, anche la più nascosta) avrebbe frequentato.
Da queste frequentazioni nascono superbi capolavori: i ritratti delle ballerine e del “disossato”; le scene di danze frenetiche al Moulin Rouge e del Moulin de la Galette, che per prime lo rendono famoso; le figure femminili ai margini, dimenticate, umiliate ed abbandonate come la splendida “La Blanchisseuse” (“La lavandaia”) che gli rende onore iconografico all’inizio di questo articolo. Ma soprattutto le sue amate e disperate Maria Maddalena, le tante meretrici che vendevano amore e calore fisico, in cambio di un simulacro di vita e per udire quella risata scoppiettante del piccolo conte, che pareva canto d’usignolo impazzito.
Donne che mai osarono schernirlo, giacchè intuivano le vibrazioni magnifiche del suo sentire originalissimo. Donne perdute ma autentiche che il genio di Toulouse-Lautrec ha recuperato all’immortalità dell’arte. Pagando questo recupero con la vita, breve ed intensa come una fiamma nell’oscurità. Grazie piccolo-grande Conte Henri, Maestro impastato d’arte e di allegria: eterno rimane il lucicchio dei tuoi occhi che vediamo riflesso negli sguardi delle tue fanciulle, salvate sulla tela. Scolpita, dentro di me, la tua figura di Genio che non ha mai conosciuto alcun tipo di ambiguità!!! “Chapeau, Comte Henri”…Già il cappello dinnanzi al Conte Henri! A presto e ben ritrovati!!! Vostra Elena P.
Complimenti Elena, hai scritto un’articolo molto dettagliato e interessante, mi auguro che qualche visitatore del Blog possa lasciare un commento, se non altro per mettere in luce le tue qualità di scrittrice! 🙂
Il “nano bevitore” la mezza matita, la mezza bottiglia, la mezza taglia, il pittore maledetto avrebbe amato queste parole quanto e più delle donne che ritraeva. Stupendo articolo, commovente, vero, serio….benedetto.
Salve a tutti, io stò per terminare una collana di volumi riguardanti la vita e le opere di svariati pittori, tra questi c’è anche quella che riguarda priprio Toulouse Lautrec e devo dire che la sua vita mi affascinato e commosso allo stesso tempo, un omino con tanti problemi fisici che ha “sfoderato” il suo talento per la pittura e l’arte delle locandine dei più famosi locali delle Parigi del tardo 1800. Anche lui, come altri artisti, morì giovane(37 anni) ammirevole la sua vita. Alla prossima by Dany
Veramente bravo/a! Non è facile trovare un’accoppiata di competenze artistiche e letterarie in un commento dedicato ad un autore di cui troppo spesso si sono enfatizzati in positivo o in negativo le doti. Hai il “mewstiere”inglese di raccontare le biografie come si fa con un romanzo:complimenti.
Gentile Francesca, in primis, La saluto cordialmente: sono Elena, l’autrice dell’articolo che Lei (Bontà Sua) ha così deliziosamente apprezzato. Le Sue parole nette, chiare ed incisive fanno breccia nella mia sensibilità: Le sono grata per tanta puntualità ed esattezza nel motivare i Suoi complimenti!! Lei è sicuramente una Persona ricca di contenuti e di spessore umano, giacchè il rispetto, unito all’attenzione speciale, che ha tributato alla mia Scrittura, scoprendone anche aspetti segreti, mi convincono di una verità fondamentale: nel Mondo c’è sempre, prima o poi, un Lettore che capisce al volo e, totalmente, chi sei e che cosa racconta la tua Anima…Grazie per averlo fatto, Francesca!! Ritorni spesso a trovarci, nella Casa degli Artisti, qui su BeppeBlog, troverà altre biografie e non solo, degne di LEI, Francesca!! Un caro saluto e buona vita. Elena Pilato.
Le coincidenze della vita, apro il primo fascicolo dell’ accademia corso pratico di disegno e pittura, vedo stampato l’opera di Toulouse Lautrec, ecco che scatta di nuovo la voglia di cercare, su internet un libro che ho letto nel 1992 prestato da un amico e mai più trovato sulla biografia di Henri. Non ricordo il titolo del libro, sè solo che che era stato preso in un mercatino dell’ antiquariato chissà dove. Ecco che navigando trovo leggendo il tuo articolo il riassunto di quel libro che vorrei tanto rileggere, aiutami a sapere se esiste ancora, per poter come te rivivere le emozioni e dolori di questo piccolo grande uomo, che ha lasciato il segno dentro di me, prima ancora di conoscere le sue opere conoscendo la sua vita.
Anna Rosa 1970.
Bravissima Elena,
Il suo articolo è interessantissimo! Io sto preparando la tesi per l’esame di maturità e per storia dell’arte ho deciso di portare proprio Toulouse Lautrec e la figura femminile nella sua opera; volevo chiederle se posso rifarmi anche al suo articolo tra le fonti, poiché mi è piaciuto moltissimo. Mi faccia sapere, e qualunque sia la sua risposta la ringrazio in anticipo.