Fino al giugno 1999, era lì lì per scoppiare il Van Gogh Museum di Amsterdam. Piccolo, troppo piccolo ormai per contenere visitatori ed ambizioni. Cresciuti entrambi a dismisura, queste in proporzione a quelli, passati dai 60mila del 1973 (data di apertura del museo) al milione l’anno di oggi. Visitatori richiamati dal genio tragico e profetico di Vincent. Attratti dal magnetismo ipnotico della sua linea vorticosa, del suo colore delirante ed esplosivo, della sua pennellata densa, grumosa, che sembra rapprendere sulla tela le dolorose asperità della mente e dell’anima.
In nessun’altra parte del mondo è possibile ritrovare una collezione più ricca e completa di capolavori del più amato pittore olandese (Groot Zundert 1853; Auvers sur Oise 1890). Così, le ambizioni del museo alimentavano da tempo il sogno di offrire a questi visitatori, in arrivo da ogni dove, servizi adeguati e anche un’attività espositiva di respiro internazionale, che presentasse l’opera del pittore espressionista nel contesto del panorama a lui contemporaneo. Non c’erano scelte. Bisognava allargarsi.
Il 1° settembre 1998 il Van Gogh Museum di Amsterdam chiude al pubblico. Riapre dopo neanche un anno, il 24 giugno 1999, ripensato nei suoi spazi interni e finalmente ampliato, anzi raddoppiato, grazie all’addizione di un edificio tutto nuovo. Una sorta di grande fungo ellittico in granito bruno del Canada, alluminio e titanio, opera del celebre architetto giapponese Kisho Kurosawa. Che nelle sfumature grigio-metalliche della costruzione (una costante del suo pensiero architettonico), dice di aver voluto ricreare la struggente ambivalenza di Kyoto al crepuscolo. Quel momento in cui tutto vira al grigio e si verifica uan fusione di prospettive, un appiattimento di ogni distanza e volume: un dramma di transizione da tre a due dimensioni, che non si vede spesso nelle città occidentali, sulla scorta delle scoperete prospettiche imposte dal Rinascimento. La costruzione si trasforma così in superficie pittorica, il cui dinamismo fluido e organico contrasta, in maniera dialettica, col razionalismo squadrato del vecchio edificio di Gerrit Rietveld.
Destinata alle esposizioni temporanee, la nuova ala (che con i suoi 5mila metri quadrati complessivi è già stata promossa a nuovo simbolo del nuovo complesso) è stata inaugurata nel gennaio 2000 con una mostra strepitosa, di cui vale la pena darne menzione, dedicata a Theo Van Gogh, amatissimo fratello minore di Vincent, mercante d’arte e collezionista e, con un’antologica omaggio, rivolta allo stesso Kurosawa. “Invidio ai giapponesi la grande chiarezza che ogni cosa ha per loro. Il loro lavoro è un fatto semplice e vivo…Come abbottonarsi il panciotto”, confessa Vincent, innamorato dell’arte del Sol Levante al punto di riuscire a collezionare qualcosa come 500 stampe dei più grandi maestri classici. Tra questi Hokusai, che prese più volte a modello per lavori di una bellezza sublime, pieni di colore e di luce.
Il fondo delle stampe giapponesi appartiene al museo, che lo conserva nella parte storica, collegata all’ala nuova dal cosiddetto “Stagno”, un cortile d’acqua stilizzato, richiamo forse ai giardini zen orientali. La vecchia costruzione di Rietveld continua, come prima, a custodire la memoria artistica di Van Gogh: gli oltre 200 dipinti, i 580 disegni e schizzi, le 750 lettere indirizzate quasi interamente a Theo. “Infatti, io non ho alcun vero amico se non tu e, quando sono giù di corda, penso sempre a te. Vorrei tu fossi qui, così potremmo di nuovo parlarne insieme…”, scriveva Vincent all’adorato Theo, da uno dei suoi tanti soggiorni, tappe di un lungo, sofferente pellegrinaggio alla ricerca di sé. L’allestimento della mostra inaugurale del 2000, in ordine cronologico, raccontava per luoghi e per immagini proprio la storia infelice del tormentato pittore.
Una vita artistica che parte da Nuenen e da un dipinto celeberrimo della giovinezza di Van Gogh, “I mangiatori di patate” (1885). Realizzato nel Brabante, è il capolavoro di un periodo scuro, segnato dalla ricerca di uno sile, caratterizzato da una pittura senza colore e senza luce, fatta di ombre e di una materia pesante e scura come la terra, specchio delle miserie e delle fatiche della vita contadina, specchio della condanna di vivere in cui si sentiva imbrigliato. Poi un cambiamento repentino. La tavolozza si schiarisce, cedendo alle seduzioni dell’atmosfera, del paesaggio. E’ il momento di Parigi. A fianco di Theo, Vincent si apre al mondo. Conosce Toulouse-Lautrec, Signac, Bernard. Scopre nuove tecniche, ad esempio il puntinismo, come testimoniano i numerosi autoritratti, di cui, uno dei più sconvolgenti, per profondità espressiva e per fedeltà spirituale, è quello posto in calce a questo articolo, capace di rendere evidente e palpabile l’urgenza interiore di Vincent di autorappresentarsi, per parlare e dialogare con i fantasmi più angosciosi del suo animo.
Pochi passi storici ed avviene l’incontro con il Van Gogh più atteso, più conosciuto, più amato ed idolatrato: quello che in Provenza, sollecitato da un sole pieno e implacabile, da una luce satura e zenitale, scopre il linguaggio violento e perturbante del colore. Se Arles è il luogo dei “Girasoli” e della “Camera dell’artista”, alcuni tra i suoi capolavori più noti, Saint-Rémy è il luogo della malattia: di quelle intermittenze della mente e dell’anima che la sua pittura registra puntuale, facendosi sempre più febbrile e tortuosa, come nel “Giardino dell’ospedale di San Paolo”. Nell’esposizione del museo la vicenda umana e creativa di Vincent procede serrata, incalzante ed emozionante tale quale un film.
Dopo la sala di Saint-Rémy, preludio alla fine, all’esplosione funesta della pazzia, sull’ultimo muro bianco del primo piano dell’immensa sala museale, si dispega l’epilogo. Tre oli da brivido, dipinti ad Auvers sur Oise, che culminano nell’emblematico, celeberrimo “Campo di grano con corvi”. Quei corvi neri che in un cielo con bagliori da Apocalisse sfiorano bassi bassi la terra, non sono che presentimenti di morte. Di lì a pochi giorni Vincent si uccide, sparandosi in pieno petto. Subito dopo la sua morte, la memoria di Vincent è affettuosamente e gelosamente custodita dalla famiglia, proprietaria della maggior parte dei lavori dell’artista, che li spediva per posta a Theo, in cambio di un po’ di danaro per sopravvivere. Alla morte di Theo, avvenuta fatalmente pochi mesi dopo quella di Vincent, la collezione passa alla vedova, Johanna Van Gogh-Bonger e, alla sua scomparsa, al figlio, Vincent Willem Van Gogh.
E’ proprio a lui che si deve l’attuale museo, voluto per garantire alla collezione un futuro e una tutela futura. Di questa fanno parte anche opere di amici dei fratelli Van Gogh; opere ricevute in dono, ottenute con scambi o più raramente acquistate. Sono di Toulouse-Lautrec, Paul Gauguin, Emile Bernard, Claude Monet, Georges Seurat, Paul Signac, Camille Pissarro. Tele splendide, conservate tra il piano terra e il terzo piano dell’edificio: una sorta di museo nel museo, dedicato alla pittura europea tra il 1840 e il 1920. Disegni e lettere occupano buona parte del secondo piano, dove vengono esposti a rotazione per la loro estrema sensibilità alla luce, per quella fragilità che oggi, a distanza di oltre un secolo, li rende così simili al loro grandioso autore.
Se desiderate concedervi un tour visivo indimenticabile presso questa meravigliosa “cittadella museale”, nella capitale del Paese dei campanelli e dei tulipani (non vi basterà un’intera giornata, solo l’ala nuova conta più di 5000 mq espositivi), eccovi di seguito i principali recapiti di riferimento: Museum Van Gogh, situato in piazza Museumplein, a cui si accede da Paulus Potterstraat 7, ad Amsterdam; orari, tutti i giorni dalle 10 alle 18, il venerdì dalle 10 alle 22; info e prenotazioni tel. 0031.20.5705200, fax 0031.20.6735053; e mail info@vangoghmuseum.it; sito web www3.vangoghmuseum.nl…Bon vojage e non dimenticate un sentito omaggio per Vincent…Un iris, un girasole o un mazzetto di lavanda: gli “amori” floreali della sua vita, gli unici capaci di acquietare e rasserenare le onde impetuose del suo spirito, troppo bruciante e troppo intenso per la mediocre ambiguità del mondo…Vostra Elena P.