“L’altissimo de sora, ne manda la tempesta, l’altissimo de soto, ne magna quel che resta, e in mezo a ‘sti do altissimi, resteremo poverissimiâ€. Ed erano poverissimi davvero, i nostri fratelli Veneti che recitavano quell’adagio, contro Dio e il governo. Miseri loro e più ancora i cugini friulani e trentini.
Al punto che nella provincia di Udine, oggi una delle più benestanti in tutto il Friuli, una commissione d’inchiesta segnalava il dilagare della tubercolosi, “malattia che trova favorevoli condizioni d’ambiente in quelle abitazioni buie, sudice, anguste, in cui si agglomeravano poveri individui denutriti, senza distinzione di sesso e di età , i quali si comunicano con la loro vita in comune la fatale malattiaâ€. Una situazione disperata, così come a Vicenza, che oggi esporta da sola quanto il Portogallo e trabocca di oro, ma allora era minata dalla tisi, “per la più parte da attribuirsi alle cattive condizioni igieniche delle case e alla difettosa alimentazione della classe poveraâ€. Alla pari con Padova dove, all’inizio del ‘900, l’ufficio igiene sosteneva che un quinto della popolazione era affetto da Tbc: “Quasi ogni famiglia ha in casa un tubercolosoâ€.
Non amano molto guardarsi indietro, ahimé, gli abitanti di oggi di queste terre nord-orientali che negli ultimi decenni si sono tirati fuori da secoli di miseria, malattie, fango, dolori. Non amano guardarsi indietro per rileggere, ad esempio, uno dei racconti più duri del “Cuore†di De Amicis. Quello del “Piccolo patriota padovano†che narra la storia di un bambino “di undici anni, mal vestito, solo, che se ne stava sempre in disparte, come un animale selvatico, guardando tutti con l’occhio torvo. E aveva ben ragione di guardare tutti con l’occhio torvo. Due anni prima, suo padre e sua madre, contadini nei dintorni di Padova, l’avevano venduto al capo d’una compagna di saltimbanchi; il quale, dopo avergli insegnato a fare i giochi a furia di pugni, di calci e di digiuni, se l’era portato a traverso alla Francia e alla Spagna, picchiandolo sempre e non sfamandolo maiâ€.
Tutto rimosso, cancellato, ficcato nel dimenticatoio con i vestiti vecchi e il vecchio dialetto e i vecchi piatti poveri in disuso come il “paciochâ€. Ebbene Edoardo Pittalis, giornalista attento e scrittore sensibile, non vuole dimenticare. E su quel pezzo di storia, pieno di luci e di ombre, ha scritto un libro significativo e coinvolgente, che emoziona ed aiuta a capire, nel contempo. S’intitola “Dalle Tre Venezie al Nordest†(casa editrice Biblioteca dell’Immagine, pagine 251, 13,00 €) e va ad esplorare com’era quest’area, oggi tappezzata di capannoni, prima del boom del secondo dopoguerra. Nella prima metà del Novecento, quando non solo non esisteva il Nord-Est come entità produttiva, ma non esistevano neppure il Veneto, il Trentino e il Figuli.
Segnati sulle mappe scolastiche, nei libri e perfino nella Treccani, compresa l’edizione 1949, come Venezia Euganea, Venezia Tridentina e Venezia Giulia. Sassarese venezianizzato, editorialista del Gazzettino, appassionato di storia, autore di vari libri, Pittalis non affonda il coltello impietoso nelle vicende più dure: scivola via con passo leggero. Lasciando, però, cadere qua e là , tra citazioni colte e filastrocche popolari, tanti pezzi di storia che aiutano a ricostruire il quadro d’insieme di una terra, che è riuscita a diventare la “locomotiva d’Italiaâ€, partendo da una situazione di tale miseria, da meritare la definizione di “Calabria del Nordâ€. Era dura davvero, nei primi del Novecento, vivere a Venezia, “una delle città più sifilizzate d’Italiaâ€, minata per “La rivista veneta di scienze mediche†dall’alcolismo: su 12mila allievi delle elementari della provincia, “soltanto tremila non devono, cinquemila devono superalcolici, novemila devono regolarmente vino e metà ne abusaâ€.
Era dura vivere lungo il Terraglio, la strada per Treviso ingentilita, parte per parte da splendide ville: “Su 769 capi-famiglia, 727 sono catalogati come “villiciâ€. Il 65% della popolazione adulta non sa leggere e scrivere, su 6362 abitanti ci sono 541, affetti da pellagra. L’ospedale di Mogliano accoglie malati da tutto il Veneto, alla fine dell’Ottocento si registrano nella regione oltre 10mila morti per pellagra, ovvero la malattia della fame, che i cari antenati Veneti pagano con la vita, cantando Polenta da formenton, acqua de fosso, lavora ti paron, che mi non possoâ€. Stremati da questa situazione estrema, decidevano di emigrare famiglie, contrade e paesi interi: “Un gran pugno batù sora la tola: Porca Italia, i bestemmia: andremo via!!â€
Le campagne si svuotavano, i parroci come quello di Saonara lanciavano anatemi contro il cosiddetto ballo; in realtà lo storico Pasquale Villari spiegava agli americani, ricorrendo a luoghi comuni e stereotipi piuttosto penalizzanti e banali che, a differenza del piemontese, considerato “aristocratico, ospitale, serio ed industriosoâ€, il veneto veniva apostrofato, a torto, come “pettegolo, indolente e non particolarmente onestoâ€. Ebbene, i fatti odierni, la rinascita e la risalita, lo spirito di sacrificio e il dinamismo, il coraggio e la generosità hanno confermato la vera ed autentica indole dei Veneti d’ ieri, di oggi e di sempre. Proprio già nel Novecento, negli anni della fame più nera, dell’emorragia demografica, della Grande Guerra, spiccavano i segnali che potevano far intuire che un giorno tutto sarebbe cambiato e avrebbe reso giustizia alle fatiche sovrumane di questo nostro meraviglioso Popolo.
Ed è da qui, dalle nostre campagne e colline splendide che arriva il messaggio di speranza più rincuorante, miei fedelissimi Lettori italiani e non; certo, c’è tempo e tempo, storia e storia, popoli e popoli, ma se il Veneto, il Friuli e il Trentino sono riusciti a rinascere da condizioni disumane e inaccettabili, anche altri pezzi d’Italia possono credere nel riscatto. Parola di una Veneto-Carnica, Doc, ovvero la vostra Elena P.
Ciao
Sto leggendo il libro di Edoardo Pittalis, e cercando in rete ho trovato il tuo blog, mi piace.
Però penso anche che il passato non deve essere una palla al piede, a volte bisogna spezzare le catene del passato. Se invece il passato serve come esempio costruttivo, ben venga l’insegnamento dalla storia di un tempo che fu.
Itrige
Il suo giornale accusava la sinistra del velinismo. Disinformazione:
ROMA – I distinguo tra Fini e il Cavaliere non sono una novità . Ma stavolta l’affondo di FareFuturo, fondazione animata dal presidente della Camera, punta su donne e televisione. Ovvero due dei punti nevralgici della visione del mondo berlusconiana. “Le donne non sono gingilli da utilizzare come specchietti per le allodole, non sono nemmeno fragili esserini bisognosi di protezione e promozione da parte di generosi e paterni signori maschi, le donne sono, banalmente, persone. Vorremmo che chi ha importanti responsabilità politiche qualche volta lo ricordasse”.
Parole come pietre, firmate da Sofia Ventura sul magazine della fondazione. Al punto che, alcune ore più tardi, lo stesso Gianfranco Fini deve puntualizzare definendo “copmprensibili, ma eccessive e non totalmente condivisibili” le opionioni della Ventura. Da tempo, la ricerca dello smarcamento dal premier è strategia quotidiana del presidente della Camera. E, come in passato, Farefuturo è lo strumento per mandare precisi segnali. Ora è il turno del personalissimo modo con cui il premier utilizza le donne in politica, le procedure di scelta e il retroterra da cui provengono. Veline, velinismo e simili, insomma.