Già pubblicato dalla casa editrice Mondadori in una traduzione complessivamente felice di Bruno Fonzi nel 1956, ricompare anche presso Adelphi, nella stessa traduzione, ma opportunatamente modificata in alcuni punti da Mario Materassi, un notevole romanzo di William Faulkner del 1939, dal titolo bellissimo Le palme selvagge (pagine 302, costo 18,08 euro
L’opportunità della revisione merita di essere segnalata perchè il libro, anche se non è il più difficile di Faulkner, mette pur sempre alla prova il lettore soprattutto poco paziente, per la singolarità della sua struttura, che si somma all’abituale virtuosismo dello stile faulkneriano: esso include due storie diverse e indipendenti, narrate a capitoli alterni, Le palme selvagge e Il vecchio. Le palme selvagge narra l’odissea d’amore bizzarra ma intensissima di una coppia di New Orleans in fuga dalla società e dalla rispettabilità: Harry Wilbourne, che rinuncia al mestiere di medico e, Charlottte Rittenmeyer, che abbandona le due bambine e il marito contrariato ma consenziente, per andare a vivere insieme, cambiando frequentemente città e occupazioni (s’insediano addirittura in un desolato villaggio minerario dello Utah).
La coppia giunge in una località del Mississippi, dove Charlotte, rimasta incinta, induce Harry a praticarle un aborto e muore d’infezione. Harry, condannato a cinquant’anni, rifiuta ogni possibile via d’uscita, compreso il cianuro offertogli dal marito di Charlotte, preferendo al nulla il dolore. Il vecchio racconta di un forzato, che aveva cercato di rapinare un treno per fare un regalo alla sua ragazza (la quale andrà presto e disinvoltamente in moglie ad un altro). Durante la gigantesca inondazione del Mississippi del 1927, il giovane detenuto viene sottratto al penitenziario e mandato con una barca a remi, a soccorrere una donna incinta rifugiatasi sulla cima di un albero.
Salvata la donna, viene travolto con lei dalla furia della piena e dato per morto, ma resiste fino ad approdare a un terrapieno, dove, col suo aiuto, il parto può avvenire felicemente, nonostante l’inospitalità del luogo popolato di serpenti e, la rudimentalità dei mezzi disponibili per tagliare e legare il cordone ombelicale (un barattolo rotto e un laccio da scarpe). Dopo peripezie di varie settimane il forzato, che per dieci giorni ha anche avuto modo di guadagnarsi da vivere e di apprezzare il lavoro, andando a caccia di alligatori, sceglie di tornare in prigione: alla pena originaria vengono aggiunti dieci anni per una sorta di tragicomica necessità burocratica di giustificare la sua apparente scomparsa.
Le due storie, narrate da Faulkner con una mirabile capacità di fondere astrazione decorativa e realismo visionario (impressionanti sono la descrizione del ricovero di Charlotte morente all’ospedale e, d’altra parte, quella delle terre sconvolte ed inghiottite del Mississippi), non hanno in comune, come si vede, nè trama nè personaggi. Kundera, autorevolmente citato in seconda di copertina, aggiunge che non hanno in comune neppure temi e motivi e, avanza un’assai improbabile somiglianza con la sonata 111 di Beethoven. Kundera è un grande saggista, indubbiamente, ma non per questo il suo giudizio è definitivo. Si può anzi ricordare che Faulkner ha detto di aver scritto la seconda storia come contrappunto della prima e che, in ogni caso, una certa simmetria tra le due, magari nell’inversione delle parti, sembra innegabile.
I temi speculari della donna e dell’amore, della maternità e dell’aborto balzano all’occhio. Ma forse c’è addirittura una cornice mitologica che unifica il dittico narrativo. E’quella della burla cosmica, che sembra connotare il significato dell’insieme e quello di singoli episodi nei quali i personaggi sono oggetto dei tiri mancini della sorte. A un cosmic-joker si allude in due punti del libro, una volta nelle Palme e un’altra nel Vecchio. Particolarmente significativa, abbagliante, è la prima, quando Wilbourne (in un passo che è stato utilmente ritoccato nell’edizione Adelphi) rifiuta di essere il verme predestinato, cieco a tutte le passioni e morto a tutte le speranze senza nemmeno saperlo, immemore davanti a tutta l’oscurità , a tutto l’ignoto, con il Gran Burlone che, nascosto, attende di farlo a pezzi. Ma al Gran Burlone, sia Wilbourne che il forzato sono costretti a soccombere. Lettura avvincente che vi terrà con la mente sveglia e il fiato sospeso!!! A presto! Vostra Elena P.
nell’originale il marito di charlotte, rittenmeyer ha il soprannome “Rat” che il traduttore fa di ventare “Carogna”. Non ha senso nè corrispondenza. Saluti