Indelebile e luminosa stella pittorica nel cielo artistico seicentesco, Tanzio da Varallo, dalla pennellata decisa e dal folgorante misticismo tematico, riuscì in un’impresa significativa sul fronte stilistico ed espressivo: seppe mescolare, nelle sue tele e nelle pale d’altare, la fulgida naturalezza, il tonalismo chiaroscurale dell’inarrivabile Michelangelo Merisi con le sfrenate eleganze dei manieristi lombardi: stella, quindi, che, seppur nell’orbita caravaggesca, merita onorata e nobile collocazione tra i Grandi del Seicento.
Le prime notizie ufficiali sulla vita di Tanzio, al secolo Antonio D’Enrico, risalgono ad un anno cruciale per la chiesa cattolica, il 1600, anno di Giubileo. A Roma, Papa Clemente VIII ha aperto nuovi cantieri, indetto notevoli festeggiamenti, ma senza troppa pompa, perché lui, dogmatico intransigente, ha in spregio malcostume e sfarzo. Tanzio ed il fratello Melchiorre hanno sentito dire di quanto va succedendo nella città pontificia, forse l’hanno anche letto su qualche foglio “notiziario”: a Roma bramano di andarci quanto prima, è un occasione da non perdere. E poi restare nel clima artistico stagnante della Valsesia, a Varallo, non può offrire, per ora, il trampolino agognato. Il lavoro scarseggia, la fabbrica del Sacro Monte vive un momento di stanca e di stallo. I ragazzi D’Enrico si recano da Fulvio Visconti, propretore di Varallo: lo conoscono bene, gli chiedono una lettera che testimoni la loro intenzione di raggiungere Roma, non perché banditi dalla Valsesia per qualche crimine, ma perché desiderosi di ottenere indulgenza plenaria e, di guadagnarsi onestamente da vivere con lavori decorosi e la loro arte, che la lettera non specifica, è la pittura soprattutto di soggetti religiosi.
Vien da chiedersi se fosse, per allora, una semplice routine amministrativa o una precauzione sensata, visto il clima inquisitorio di Roma? Chissà , comunque i due fanno bene a premunirsi: è l’11 febbraio 1600, nemmeno una settimana più tardi Giordano Bruno verrà bruciato vivo in Campo de’ Fiori. La vita ufficiale e documentata di Tanzio sembra cominciare così. Ciò che ha preceduto quel freddo giorno di febbraio è quasi completamente sconosciuto: il mistero della giovinezza del pregevole pittore seicentesco resta mistero. L’indagine esistenziale, al contrario di quella estetica, rimane, tutto sommato, ferma ai risultati segnalati dall’illuminato studioso Giovanni Testori, nel catalogo di quell’indimenticabile mostra monografica, che, giusto quarantasette anni fa, riscoprì questo pittore straordinario, fino a quel tempo, parzialmente sconosciuto. Rimane agli atti, secondo le ricerche del Testori, che Antonio D’Enrico nacque ad Alagna, proprio sotto il Monte Rosa, ma la data rimane indefinita, probabilmente situabile verso il 1580. Del padre si sa che si chiamava Giovanni, faceva il fabbro ferraio e disponeva di un ragguardevole patrimonio.
Della famiglia si sottolinea la spiccata predisposizione per l’arte: Giovanni, il maggiore dei suoi fratelli, nato nel 1559, era un abile scultore; Enrico esercitava il mestiere di capomastro, Giacomo era registrato come un costruttore e Melchiorre dipingeva. Con tanti maestri in casa è logico supporre che Antonio (Tanzio era un nomignolo dialettale), si sia fatto le ossa in famiglia e che, i primi rudimenti d’arte li abbia appresi, accompagnando e poi aiutando i fratelli sui cantieri. Del resto è noto che nel 1856 fu affidato ai D’Enrico il compito di edificare al Sacro Monte di Varallo la cappella della “Strage degli innocenti”, finanziata da Carlo I di Savoia. Della decorazione pittorica fu incaricato Giovanni Battista della Rovere: vederlo all’opera, dovette essere per Tanzio una scuola decisiva sotto il profilo tecnico, assai meno sotto quello dell’ispirazione e della creatività . Frequentare il Sacro Monte in quegli anni significava, però e soprattutto, entrare in consuetudine con l’opera di un protagonista del Rinascimento, tale Gaudenzio Ferrari, che nel “gran teatro montano” aveva affrescato, tra il 1520 e il 1530, la cappella del “Calvario” e quella del “Viaggio dei Magi”. Per un ragazzo di nemmeno vent’anni con una promettente vocazione pittorica, quella sì rappresentava una lezione davvero formidabile.
Probabilmente per mettere alla prova quanto aveva imparato nel cantiere varallino, Tanzio, intorno al 1597, si associò al fratello Melchiorre per aiutarlo ad eseguire, sulla facciata della parrocchiale di Riva Valdobbia, un grande “Giudizio Universale”, caratterizzato da un’enfatica e sgrammaticata giustapposizione di anatomie muscolosissime, scorci e articolazioni spigolosi e manierismi “alla romana”, letti però attraverso la lente della pittura nordeuropea. In questa collaborazione, che si tenga presente è supposta non documentata, c’è forse la spiegazione più chiara di molta della successiva arte di Tanzio. Intanto, ci siamo avvicinati al fatidico 1600, appunto l’anno giubilare. Il giovane Antonio si sentiva pittore nell’animo, ma si rendeva conto di essere ancora acerbo e impreparato e, gli era altrettanto chiaro che nella sua valle, ma pure nel contado milanese, le occasioni di apprendimento e di perfezionamento restavano scarse. Le botteghe mancavano, la generazione dei grandi artisti era finita, ora a farla da padroni, nella terra lombarda, era la mediocrità degl’imitatori. E allora si guardò a Roma e si scelse Roma!
Nella città eterna era il tempo glorioso del Caravaggio, che vantava cantieri aperti un po’ ovunque nella capitale e stava rivoluzionando la pittura, per sempre. E poi c’era Orazio Gentileschi, c’erano i Carracci, Domenichino e Rubens: per chi aveva desiderio di tuffarsi nell’Arte più sublime, non esisteva davvero accademia migliore. E Roma fu, dunque, per il magistero di Tanzio. Che fece germinare, tra le prime espressioni figurative, quella bellissima misura di realismo caravaggesco e di estremo manierimo lombardo che corrisponde alla tela di “Davide con la testa di Golia”, posta in calce al mio articolo, attualmente custodita nella Pinacoteca di Varallo: opera indimenticabile, dove l’eroe biblico, imberbe fanciullo biondo dall’angelico viso, sembra quasi aggredire con gesto impetuoso la tela e consegnare allo sguardo attonito e stupito degli osservanti la malefica testa del crudele Golia.
Del soggiorno tiberino la storia ci ha tramandato nulla o quasi nulla, ahinoi. In un passo di un cronista di poco posteriore a Tanzio, il Cotta, si legge per esempio, nella lingua corrente del tempo: “Nelle Accademie di Roma hebbe il Tanzio li principi e l’inoltramento a grandi cognitioni, ma abbandonatele in tempo che colà come in largo campo di conosciuta virtù poeta maggiormente spiegare l’ampiezza delle sue nobili idee, ritirossi in patria”. Il ritorno a casa in effetti fu tutt’altro che immediato. A Roma, o comunque nell’Italia centrale, Tanzio restò a lungo. E ovviamente studiò, disegnò e dipinse, visse per qualche anno insieme con Melchiorre, poi solo, conducendo una vita modesta, pia, lontana da scandali e clamori. Le tracce della sua esistenza sono scarse, le prove del suo operare artistico, circostanziali e controverse. Quello che è certo è che a Roma si formò, assorbendo gli insegnamenti e la cultura caravaggesca e, si fece la nomea di pittore di notevole valore, tanto che la parrocchia di Fara San Martino, un borgo abbruzzese alle pendici della Maiella, gli chiese, poco dopo il 1610, di dipingere una pregiata “Circoncisione”. L’opera riscosse, almeno nella zona, discreto successo e nel 1614 il barone Tommaso D’Amata e sua moglie Pompea De Matteis vollero che Tanzio facesse una pala con la “Madonna dell’incendio sedato”, per la collegiata di Pescocostanzo, un piccolo villaggio non distante da Fara, sulla strada per Chieti.
Dell’esperienza romana e del successivo girovagare per i territori di Napoli e delle Puglie resta ancora da dire di una “Madonna con il Bambino e san Francesco”, trovata nei primi anni Duemila in totale degrado a Colledimezzo e, prontamente restaurata negli anni seguenti, di una “Pentecoste”, di cui sono stati da poco recuperati quattro frammenti usati per allargare tre tele settecentesche, nella sala capitolare di Santa Restituita a Napoli. Nel 1615 Tanzio è a Varallo. E’ un artista maturo e capace. Ne è testimonianza l’eccellente “San Carlo Borromeo comunica gli appestati”, collocato nella collegiata di Domodossola, un capolavoro di cui il Testori scrive: “E’ difficile trovare un altro dipinto che, della peste, dia un’immagine così tragica e, nello stesso tempo, così lucida e serena. Tutto v’è, qui, più che rappresentato, toccato; come se tutto fosse ridotto all’osso”.
Intanto il Sacro Monte di Varallo gli commissiona la decorazione della XXVII cappella: la “Prima presentazione di Cristo a Pilato”, un lavoro d’indubbia suggestione scenografica, dominato dalla presenza di un articolato paesaggio urbano cinquecentesco, con palazzi collegati da arditi archi pedonabili e di un popolo di personaggi effigiati con fine introspezione psicologica e maestria simbolica. La sua pittura sta crescendo con consapevolezza d’intenti e profondità espressiva, tant’è che Tanzio manifesta talento indiscusso nell’armonizzare, sulla tela, realismo, fervore e contemplazione. Quando il vescovo Taverna visita la cappella nel 1617, gli affreschi non sono ancora terminati e, il prelato suggerisce allora a Tanzio di dare più evidenza all’impiccagione di Giuda: un consiglio che il pittore non accoglie, ma che mette in luce il suo rapporto paritario con i più alti rappresentanti della Chiesa del tempo e dà , per conseguenza, una misura della sua fama. Non passa molto tempo e, Tanzio affronta un’altra sfida nel cantiere varallino: la cappella di Pilato che si lava le mani.
Realizzata intorno al 1620, l’opera segna una tappa importante per l’arte di Antonio d’Enrico: lo spazio rappresentato acquista una dimensione tragica e unitaria, il contorno paesaggistico è abolito, tutta la scena si concentra sul dramma e il dramma si svolge per intero nella scena. La pittura si fa espressione di una fede intensa. Al Sacro Monte Tanzio sarà chiamato, ancora una volta, nel 1628 o giù di lì, per affrescare la cappella XXVIII che racconta la “Presentazione di Cristo a Erode Antipa”. Il pittore costruisce sulla parete una sala delle udienze, immaginata come un grande porticato animato da un’agitata folla di spettatori ed affacciato sulle strade e gli edifici di un’elegante città di sentimento palladiano: uno stratagemma compositivo per dinamizzare lo spazio e, dilatarlo illusionisticamente.
Il decennio che segue è contraddistinto da un’attività molto vivace. La sua vita si svolge nell’area del Lago Maggiore, tra Pallanza e Borgomanero e poi nel territorio di Domodossola e, poi nel Novarese: ritratti per le famiglie dell’aristocrazia locale o per il clero, pale d’altare, affreschi. La produzione è sempre di ottima qualità , a volte addirittura incantevole come provano la “Visitazione”, una pala concepita per la chiesa di San Brizio a Vagna, o il “Cristo Crocifisso” di Gerenzano, o, ancora, la decorazione per la cappella di Ottavio Notari, dedicata all’angelo custode, nella basilica di San Gaudenzio a Novara, per la quale concepisce una devastante e vivissima “Battaglia di Sennacherib”. E’ anche un periodo di importanti decisioni esistenziali: si sposa, stringe sempre di più i rapporti con i fratelli, con Melchiorre che lo coadiuva in più di un affresco, con Giovanni che gli è indispensabile collaboratore nelle imprese varalline, aggiungendo alla trama pittorica l’elemento scultoreo indispensabile nell’estetica dei Sacri Monti.
Nel 1630 è a Varallo, ma subito dopo si trasferisce a Milano, dove la peste è appena cessata. Nella città lombarda lavora in Sant’Antonio Abate e in Santa Maria della Pace. Non ha che cinquant’anni e, sente nuove urgenze creative. Piega la sua pittura alla narrazione pastorale e paesaggistica: forse il sintomo di una fede non più vissuta come azione e fervore, ma come mistica ed estasi. Certo è il segno di un cambiamento profondo, che non è solo culturale o psicologico, ma riflette qualcosa che tocca anche la salute. Sono in effetti i suoi ultimi anni. Nel 1632 inizia ad affrescare la cappella di San Francesco nella collegiata di Borgosesia. Non riuscirà a portare a termine il suo compito. Morirà nell’ottobre dell’anno seguente. Sul letto di morte chiede al fratello Melchiorre di completare il lavoro e, di destinare l’incasso alla povera vedova.
Se ne andava un rappresentante di rilievo, tutt’altro che provinciale, del Seicento lombardo: Tanzio saliva agli altari celesti, lasciandoci in eredità un commosso e sentito senso del sacro…Lo aveva raccolto ed, abilmente onorato dall’immenso Solista della sacralità pittorica: il Principe Merisi, che sta fuori dal Tempo e, ancora vaga nelle luci delle nostre case e delle nostre “stanze”, orchestrandone manifestazione e direzione…Tanzio seppe vederlo, sentirlo, viverlo il Caravaggio…E voi, miei illuminati Lettori, saprete fare altrettanto?!! Seguitemi con il cuore, gli occhi e l’anima sgombri di ogni timore e di ogni presunzione e, ritroverete la via maestra della “Luce che conduce”, nella “riserva delle meraviglie” del Fotoblog di Patron Beppe e, tra le mie parole, limpide ed appassionate, come la Verità dei semplici! Vostra Elena P.
Salve a tutti, ancora una volta la “scrittrice” Elena ci ha deliziati con un suo articolo…. L’ho letto tutto e parlando da profana quale sono, direi che è molto dettagliato, credo che molti studenti universitari della storia dell’arte naturalmente, potrebbero tranquillamente prendere qualche spunto da tali articoli. Grazie per ciò che scrivi by Dany