Il Re dello sgocciolamento pittorico: il ribelle Jackson Pollock.

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Rissoso, insicuro, alcolizzato, secondo i parametri della morale comune che sa additare con superficialità ed ottusità, ma poco “mastica” e comprende d’arte. Ad una festa, turbato dal trionfo di tanta ipocrisia, spaccò con un pugno una finestra, sotto gli occhi esterrefatti di Willem De Kooning e di Franz Kline. Un’altra volta urinò nel caminetto di Peggy Guggenheim, grande mecenate e collezionista generosissima, che pure aveva un debole per la sua “ingestibilità“. Ma, Jackson Pollock, piaccia o non piaccia al Bon Ton, fu artista di prima grandezza e d’indubbia portata rivoluzionaria: i suoi quadri aprirono un’epoca nuova e la sua influenza sugli artisti contemporanei è ancora evidente, a mezzo secolo di distanza.

Senza timore di essere confutata, posso affermare che Jackson Pollock è il più famoso pittore americano del Novecento, dotato di una dose connaturata di “ribellismo” negli atteggiamenti e nella condotta, consacrata ufficialmente dalla nascita del suo personaggio di “eroe maledetto”, alla James Dean. Come Dean, infatti, si schiantò in macchina, nel 1956, a soli 44 anni, in una notte in cui aveva ingoiato troppi bicchieri di whisky, inseparabile “amico” nei momenti ispirativi e creativi, lungo la stradina alberata che lo portava nel suo atelier-casa, in mezzo ai boschi adorati degli Hamptons. Come Dean o, come Brando, amava farsi fotografare in jeans, T-shirt, sigaretta immancabile all’angolo della bocca, sguardo torvo, da autentico “dannato” della vita. Divenne famoso improvvisamente, quando, nel 1949, uscì un articolo su “Life”, intitolato provocatoriamente: “E sarebbe questo il più grande artista americano vivente?” “Attorno a Jackson si alimenta sempre un fermento di opinioni accese e contrastanti, che viaggiano sul doppio binario parallelo della venerazione acritica o della repulsione immediata- afferma Kirk Varnedoe, esperto pollockiano di fama internazionale- giacché il giudizio sul suo percorso artistico è ancora, in qualche modo, sospeso. Anche se tutti sono d’accordo che sia una delle figure più rilevanti dell’Espressionismo astratto, perché ha inventato un modo nuovo di fare arte”.

E, se anche non si vuole ammettere, che sia stato uno dei più grandi artisti americani, bisogna riconoscere che le sue tele hanno cambiato, totalmente, il modo di dar vita ad un’opera d’arte, in modo primitivo, molto fisico, irrazionale, secondo gl’istinti di un’espressione primordiale, magica, simbolica nel senso di totemica. Probabilmente, la sua comparsa sul panorama artistico contemporaneo ha fatto da ponte tra la pittura e l'”installation art” (arte dell’installazione). Indubbiamente, è stato il primo artista americano ad acquisire gloria e notorietà anche Oltreoceano. E nelle aste di arte contemporanea, i suoi quadri, le rare volte che appaiono, vengono battuti per milioni di dollari: da Sotheby’s, nel 1989, la sua opera “Numero 8” del 1950 è passato di mano per la “modica” cifra di dodici milioni di dollari.

I suoi quadri sono vertigini di colori. Labirinti di linee, punti, macchie e, soprattutto, di vernice lasciata cadere, fatta sgocciolare da una spatola, versata dal barattolo, quasi scagliata sulla tela. Da qui il soprannome di Jack “The Dripper”, da “drip”, goccia, affibbiatogli dal “Times”. Nella tecnica del “dripping” (sgocciolature e spruzzi di colore sulla tela, rigorosamente distesa a terra), legata anche alla convinzione della non casualità di ogni atto artistico (per Jack, nulla si crea per caso, in senso pittorico, ma tutto segue una sua mentale traiettoria creativa), il ritmo delle composizioni veniva dato dal movimento frenetico del braccio e del polso: concezione gestuale alla base dell’Action Painting (Azione pittorica), di cui Pollock diventò il rappresentante maggiore e più emblematico. Una metodologia, la sua, documentata dal fotografo Hans Namuth, che trascorse mesi e mesi nello studio-atelier di Pollock a Long Island: realizzando straordinari bianchi e neri dove Pollock sembra danzare in “trance” attorno e dentro la tela (ben evidenziato nello scatto che accompagna quest’articolo). La tela, che per la prima volta viene staccata dal cavalletto e messa per terra, in modo da poterci entrare (come desiderava Jackson), letteralmente, dentro.

Un terreno comune negli esiti visivi d’innegabile suggestione e potenza lega il dripping pittorico di Pollock con l’Arte fotografica di Beppe. Regalatevi il piacere e l’arricchimento emozionale di osservare il capolavoro-scatto “Il Lago di porpora”, che spicca nello storico Fotoblog, inserito in data 23/06/2006 ed, accostatelo a quanto detto della tecnica pollockiana: tutto vi apparirà più chiaro. Ebbene, scoprirete che Beppe, nel suo istantaneo e perfetto ardore creativo, ha immortalato la materia pura del lago stesso, l’acqua, conferendole la densità e la consistenza fisica, simile ad un’irrefrenabile colata di vernice pollockiana sulla tela. Beppe, al pari di Pollock, non scompare dietro la sua Nikon-tavolozza, anzi sembra “farsi” acqua-colore egli stesso, in prima persona, tramutando un semplice scatto-pennellata, nella capacità di svelare e di cogliere l’essenza della materia e dei suoi sorprendenti stati di trasformazione. Ecco spiegata, grazie ad un occhio mentale incredibile, quello di Beppe, la tecnica dello sgocciolamento-dripping, naturalistico ancor prima che visivo. Tra Beppe e Pollock, all’entrata del suo atelier, sarebbe scoccata l’intesa all’istante: i due Maghi del dripping si sarebbero “parlati” a vista!!

Un carattere difficile quello del nostro Jack, singolare ed introverso. Instabile, come la sua vita, tutta all’insegna della precarietà: nato nel 1912 a Cody, un piccolissimo paese, sperduto nelle praterie del Wyoming, ma cresciuto in California e in Nevada. Sbiadite le figure dei genitori: perennemente in lite con il padre, non ne riconobbe mai l’autorità. L’influenza determinante fu quella di suo fratello Charles, il più grande dei quattro figli, trasferitosi a New York proprio per dipingere. Jackson lo seguirà nel 1930, diventando allievo di Thomas Hart Benton, pittore molto noto in quel periodo. Per il giovane “provinciale” sono anche gli anni della psicanalisi e dell’insicurezza divorante, mascherata da atteggiamenti provocatori e violenti. Una vita alla ricerca di se stesso che lo rese permeabile alle più diverse influenze artistiche: i suoi primi lavori che ricordano i murales di Siqueiros e Orozco, ma rimandano anche a Mirò, Kandinsky, Picasso (Pollock vide “Guernica”, nel 1939, proprio al Moma di New York e ne rimase sconvolto dalla forza espressiva) ed, ancora ai Surrealisti e, all’arte dei “nativi” americani, ovvero i disegni effimeri eseguiti con la sabbia dagl’indiani Navajo, la cui efficacia magica era legata alla loro scomparsa al tramonto.

La prima commissione importante venne nel 1943 da Peggy Guggenheim: per il suo appartamento Pollock dipinse “Murales”, una tela di 2 metri e mezzo per 6, realizzata in una sola notte. In realtà, non c’è da stupirsi, poiché la tecnica di Pollock consisteva nel rincorrere, catturare, abbracciare l’ispirazione, traducendola in quadri frenetici. Un artista dell’Action painting, a tutti gli effetti, giacché nelle sue tele si percepisce al volo l’importanza del gesto, della fisicità. Ma sbaglia chi pensa che questi quadri siano il risultato della casualità: Jack aveva coscienza di ciò che avveniva dentro la sua mente ed, aveva il tempo di riflettere durante il processo creativo, anche se il caso, la spontaneità, l’incidente di percorso conservavano ruoli importanti, ma secondari. Jackson possedeva una tecnica precisa e, sapeva controllare alla perfezione come far uscire quelle linee, quelle sgocciolature e la densità del quadro in generale. Non è facile ottenere lo stesso effetto in scale di grandezza diverse: bisogna davvero avere una padronanza esecutiva, fuori dal comune. E Pollock era padrone del suo sè espressivo. A pieno titolo.

Il momento magico della sua carriera, l’apice, dura poco meno di dieci anni: dal 1943 al 1952. Pochi ma sufficienti per creare capolavori irripetibili. Elemento essenziale di stabilità e relativa serenità esistenziale è l’incontro con Lee Krasner, anche lei pittrice, che diventerà sua moglie nel 1945. Prima di lei, Pollock non aveva mai costruito rapporti amorosi appaganti. Il grandissimo merito della Krasner è quello di averlo rassicurato, spronato, spalleggiato. E, infatti, il declino artistico di Pollock scatta con l’allontanamento da Lee, quando inizia a tradirla, per furia e per eccesso narcisistico. Appena sposati si trasferiscono a Long Island: a quegli anni risalgono la serie strepitosa, nell’irruenza esecutiva, intitolata “Accabonac Creek”, chiamata così con il nome di un piccolo ruscello e, la serie “Sounds in the Grass”, “Rumori nell’erba”. I titoli suggeriscono l’avvicinamento di Pollock alla natura: da questo momento in poi i suoi quadri diventano sempre più astratti e surreali. Senza titoli, solo numerati.

L’inconscio ha un ruolo fondamentale nel percorso artistico di Pollock. Diventa arte, a tutti gli effetti: come nel caso dei dipinti “Autumn rhythm”, “Number 30” e “Number 31”. Tutti e tre hanno una potenza espressiva, che colpisce come un pugno nello stomaco. Tutti e tre sono stati dipinti al culmine della carriera, in quel magico e, purtroppo irripetibile 1950. Pensare al lavoro di Pollock senza questi tre capolavori sarebbe come pensare alla carriera di Gericault senza “La zattera della Medusa”: sono la prova di un momento straordinario, di un’apoteosi del suo talento. Dopo inizia il declino e il lucido annegamento nell’alcol. Le crisi depressive lo lasciano in uno stato di prostrazione che gl’impedisce di dipingere per mesi: sono pochi i quadri terminati in questi ultimi anni. Tra questi c’è una serie assai pregevole di disegni ad inchiostro nero su carta giapponese: saranno il punto di raccordo con i dipinti dell’ultimo periodo. “Blue Poles: number 11” del 1952 è l’ultimo quadro monumentale, completamente astratto, capace di emanare un’intensità struggente, perché in esso si sente tutta la sofferenza psicologica dell’artista e dell’uomo. Da quel momento in poi, la vita di Pollock si sgretola: sempre più frequenti i suoi tradimenti e l’insofferenza per la pressione dell’attenzione pubblica. Stava diventando un personaggio, ahinoi e, gli piaceva esserlo, provocarlo, esagerarlo tale personaggio. Con lui, l’occhio di bue, la luce puntata sul palcoscenico si sposta, per la prima volta, dall’opera d’arte e va ad illuminare totalmente l’artista. Andy Warhol, l’artista-personaggio per antonomasia, non sarebbe potuto esistere senza Pollock.

L’esplosione “amorosa” che legò Pollock al colore, venerato ed utilizzato nella sua pienezza materica e nella sua consistenza fisica, lo fa accostare legittimamente, pur a distanza di 5 secoli, al Maestro dei maestri, al sublime Tiziano, che viveva “incarnato” nella sua tavolozza e nei suoi colori magistrali: due caratterialità lontane, due contesti temporali diversissimi, due stili divergenti, ma uniti da un’unica e salda “comunione” viscerale, quella con il colore. E, chissà, che da qualche parte, oltre il firmamento, nell’Empireo dei Talenti, il Divino Cadorino e il Ribelle Yankee si dilettino a confrontare i loro polpastrelli e le loro tavolozze, incrostati di cromie e di maestrie insuperabili. Alla ricerca del colore e del gesto perfetto. Statemi bene e buon’arte a tutti! Vostra Elena P.

Un commento su “Il Re dello sgocciolamento pittorico: il ribelle Jackson Pollock.”

  1. “Una goccia d’acqua che si spande nell’acqua, le fluttuazioni delle popolazioni animali, la linea frastagliata di una costa, I ritmi della fibrillazione cardiaca, l’evoluzione delle condizioni meteorologiche, la forma delle nubi, la grande macchia rossa di Giove, gli errori dei computer, le oscillazioni dei prezzi Sono fenomeni apparentemente assai diversi, che possono suscitare la curiosità di un bambino o impegnare per anni uno studioso, con un solo tratto in comune: per la scienza tradizionale, appartengono al regno dell’informe, dell’imprevedibile dell’irregolare. In una parola al caos. Ma da due decenni, scienziati di diverse discipline stanno scoprendo che dietro il caos c’è in realtà un ordine nascosto, che diede origine a fenomeni estremamente complessi a partire da regole molto semplici.”
    James Gleick

    Articolo:
    http://pesanervi.diodati.org/pn/?a=339

    Credo che Pollock, con la frase: “Io mi occupo dei ritmi della natura”, intendesse semplicemente evidenziare una certa correlazione tra il “lato pratico” della tecnica dello sgocciolamento, e alcuni aspetti della natura che l’uomo ormai conosce sin dalla notte dei tempi. Sicuramente influenzato quindi da uno di questi “aspetti della natura”, come ad esempio il moto e i flussi del vento, ha cercato di ricreare artificialmente (con la tecnica che tutti conosciamo: lo sgocciolamento), una sorta di “parallelismo” tra i due “eventi” (tecnica e natura), da potersi concretamente espletare nell’esecuzione delle sue tele; a dimostrazione appunto dell’oggettività di tale idea. Oggi sappiamo comunque che tali idee (che un tempo potevano restare unicamente nel campo delle ipotesi), hanno delle basi scientifico-matematiche piuttosto concrete.

    Se prendiamo ad esempio in considerazione il gocciolamento di un rubinetto, non osserviamo nient’altro che una sorta di “caos in miniatura”; esso rappresenta inoltre un sistema dinamico discreto, più facile sia da osservare che da analizzare di un sistema continuo. In condizioni di “flusso ordinario” (lento), avremo quindi delle gocce ritmiche e ripetitive; se però il flusso aumenta, la goccia, formandosi, vibra. Essa non ha perciò la possibilità di entrare in uno stato stazionario di lento accrescimento. Di conseguenza, il preciso istante in cui essa si stacca dipende non solo da quanta acqua è entrata nella goccia, ma anche dalla velocità con cui questa si muove nella sua oscillazione. In tali circostanze le gocce possono prodursi a intervalli irregolari, aperiodici.

    L’analogia con il flusso di un fluido, risulta quindi evidente. A piccole velocità un fluido scorre in modo regolare, ma a velocità maggiori compie una transizione alla turbolenza; cioè significa che a piccole velocità le gocce si formano regolarmente, mentre a velocità  più elevate diventano irregolari. Grazie ad alcuni esperimenti condotti alla UCSC circa venti anni fa da Robert Shaw e colleghi, si è arrivati a ricostruire la topologia di un attrattore nella dinamica di un rubinetto che gocciola. Oggi quindi sappiamo che un attrattore strano è effettivamente responsabile del regime non periodico del gocciolamento di un rubinetto all’aumentare del flusso d’acqua (l’attrattore che viene a crearsi è simile a quello di Hénon). A velocità di flusso più elevate l’attrattore sperimentale diventa molto complicato, e la sua struttura credo che non sia stata ancora compresa. Se quindi l’idea che la dinamica caotica degli attrattori strani sia responsabile almeno di alcuni fenomeni turbolenti è ormai accettata, gran parte della turbolenza rimane però un mistero. Alcuni aspetti “matematici” quindi della tecnica di Pollock, debbono ancor oggi essere risolti.

    Fausto Intilla
    http://www.oloscience.com

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