Diego Rodriguez de Silva y Velazquez, sivigliano di nascita (1599-1660), ovvero il principe dei pittori spagnoli del tardo Cinquecento e, senza dubbio, il maggiore e più nobile seguace dell’arte caravaggesca in terra iberica. Genio ardito e penetrante, un pennello fiero, un colore vigoroso, un tocco energico, che eccelse nell’imitazione della natura: non a caso nella classificazione stilistica della sua arte, viene collocato, a ragione, tra i “naturalisti” nome, che si dà a coloro che, pur senza innalzarsi all’ideale ragione della bellezza, la cercano nella natura, tal quale esiste in essa ed, aspirano unicamente a trasferirla integra nei loro quadri.
Fu l’artista che meglio seppe penetrare nell’anima spagnola, quello che trovò la forma e l’espressione, che s’addicevano più fedelmente allo spirito del suo popolo. Dipinse con tanta finezza ed acume, con tanto vigore e precisione, con tanta semplicità e forza rappresentativa, che, di fronte a lui, il più magistrale dei pittori prova la tentazione di spezzare i pennelli, per inadeguatezza. Non dedicò, abitualmente, i suoi lavori alla Chiesa e non andò a cercare i suoi soggetti prediletti tra le pagine della Bibbia, né tra le vite dei santi: naturalista per eccellenza, dipinge ciò che vede e, sa quel che dipinge e come deve dipingerlo, mantenendo, anche nel trattare i temi profani, quella severità e quella gravità che corrispondono al carattere spagnolo e, che contrassegnano le varie scuole pittoriche della Spagna.
In tutte le sue opere dominarono la prospettiva aerea, l’atmosfera, la luce, il giusto valore di tutti i toni e, per mezzo di colori fondamentali ed imprescindibili (le terre in genere, le ocre, la terra di Siena bruciata e il nero d’osso, i rossicci) riuscì a fissare i termini e le distanze con la stessa precisione, con cui avrebbero potuto farlo le inflessibili regole della prospettiva. Le sue opere non furono creditrici ad alcuno per la loro spettacolarità , per quanto egli avesse tributato non poca ammirazione ai pittori veneziani e fosse stato intensamente “marcato†nell’ispirazione dai capolavori del Caravaggio, durante due soggiorni i terra italica. Furono figlie, a tutti gli effetti, della sua originalità , della sua spontaneità , del suo senso artistico. Lo studio costante del vero gli conferì il dominio del disegno, così come lo sguardo finissimo gli aveva dato la capacità di apprezzare il colore. Il buon gusto e l’eleganza nel presentare atteggiamenti, espressioni e gruppi con snellezza e grazia, dominano in tutte le sue tele.
Non è artista di grandi e complesse concezioni, né di ricerche erudite, né di spirito ardito. Ma è il gioco armonioso con cui sfrutta ombre e luci che accompagna l’occhio, il nostro occhio, ad abbracciare l’intera visione rappresentata e, a cogliere con immediatezza la distanza tra l’uno e l’altro piano. Con queste variazioni animate, egli attua la sua rivoluzione sottile ma decisiva: ci trasporta nello spazio che egli stesso ha creato, ci fa vivere direttamente in esso e, conduce così le vette della realtà artistica verso gli apici della realtà vivente. Concentrava il suo interesse sull’aspetto fisico delle cose: la sua eccellenza ed unicità stava proprio nell’enfasi della volumetricità dei colori, della loro consistenza, dell’evidenza coloristica che diveniva essenza vivente, nello stesso tempo.
Né l’antichità classica, né il Rinascimento condizionarono le sue opere, come fu, del resto, già per il liberissimo e furiorissimo Merisi; per Diego non esistevano altri libri, né altri modelli, né altri studi che il vero; non conosceva altri orizzonti oltre a quelli percepibili con l’occhio. Da ciò dipende il fatto che Velazquez è in pittura, come Cervantes nelle lettere, così mirabilmente e grandiosamente spagnolo. Pittura austera, pittura di Pastiglia, pittura di concentrazione, pittura pregna di luce interiore, dove lo spazio esiste per lo spazio, come l’arte esiste unicamente per l’arte: Velazquez è l’indice della bilancia della Spagna nel momento in cui la bilancia saliva più in alto e nei suoi piatti stava l’oro del Secolo d’oro. Diego è, quindi, l’equazione plastica reale e aurifera perfetta del suo tempo e del suo popolo, come ben mette in evidenza lo straordinario dipinto “Venere allo specchio†della nostra copertina, dotato di alitante delicatezza e di strepitoso fulgore lumistico, oggi ammirabile alla National Gallery di Londra .
Nel Barocco europeo, nel cui grembo formale matura l’evoluzione del Sivigliano, tutte le arti e gli stili spingevano all’estremo le proprie possibilità espressive. Soltanto Velazquez ci consegna un’eleganza senza clamori, paralizzata in se stessa dal suo contemplarsi. L’azione è come trattenuta da un superiore senso della “cortensanìa†e, i suoi personaggi sembrano contemplare senza ribellione il crollo della grandezza imperiale spagnola. Ma tutto ciò (cosmico ed abissale, nel contempo) avviene senza enfasi, senza grida, vestendo le proprie opere della serena malinconia, che accompagna sempre i tramonti. La fugacità dei fulgori e delle immagini di Velazquez è, in certo modo, anche l’esemplificazione pittorica di un altro “leitmotiv†della visione cosmica dello spagnolo del secolo XVII, quello della transitorietà, della labilità di tutte le cose. Calderon, il sommo poeta, in uno dei suoi versi immortali scriveva la vita scorre fra due porte: la culla e il sepolcro. Nulla esiste di per sé: gli esseri umani non sono che fantasmi, forme oniriche o sognate da loro stessi. Gli Autos sacramentalesìs di Calderon sono come un’immensa danza di morte.
Non giungerà a dirvi la stessa cosa della pittura di Velazquez, perchè nei suoi quadri tutte le cose sono bagnate dalla luce e questa luce è sempre brillante e mattinale; ma anche là, in fondo a tanta chiarità, palpita l’ombra di qualcosa che si estingue. Le sue opere colgono sempre un momento fugace e miracoloso della vita: quel minuto che prefigura l’arrivo di un nuovo attimo dominato da un altro mondo visivo ed emozionale; quindi, la magia pittorica che anima il concatenarsi delle sue creazioni muore nel medesimo istante del suo palesarsi, uccisa dal proprio splendore. Catturare la Luce, fermare il palpito di vita, sapendo che su tutto aleggia un alato spirito di tramonto; condurre la luminosità al trionfo espressivo e pittorico sulla tela strappandola o creandola nel buio, consapevole che proprio nella pienezza luministica, per dare senso ad essa, alberga il contrasto dell’oscurità. Queste le armi segrete del Sivigliano e del gran Lombardo: dipinsero la Luce prima della dissolvenza, imprimendone il ricordo e l’immagine eternamente nella nostra sensibilità e memoria di comuni mortali oscuri, illuminati a noi stessi proprio da quel Lampo di Luce. Furono come limpida acqua, che correva inesauribile dalla sorgente sofferta e sofferente della verità. Vostra Elena P.