Centotrentasette pittori, è stato scritto, si formarono nella bottega di Francesco Squarcione, padovano. Francesco l’astuto, potremmo chiamarlo: avvezzo ad un vivere recitato, oscillante dalla spiritosa loquacità dei suoi conterranei ad una sorta di millanteria sfoggiata, sua peculiarità caratteriale. Prima di essere pittore s’era ingegnato in molte cose, anche nel ricamare e nel cucire da sarto: difatti quelle sue forme durette che, per ammorbidirsi, si ondulavano rigidamente o si svuotavano allungandosi, sembrano talvolta star su per cuciture interne, ripassate a rinforzo. Ma la sua fama non è tanto affidata alle opere pittoriche, quanto ad un’idea molto pratica; ovvero quella di aprire in Padova una scuola per giovani supposti valenti ai quali insegnava a muovere il pennello e a macinare colori: alcuni erano tenuti come discepoli, altri, troppo poveri per pagarsi la scuola, adottati come figli.
E così fu adottato nel 1441, un ragazzetto fra i dieci e gli undici anni, figlio del falegname Biagio, inurbato dal paesino di Isola di Carturo tra Vicenza e Padova. Si chiamava Andrea Mantegna, era uno fra i più poveri. Ma quel biondo di occhi chiari, così intento in se stesso quando non erompeva in ribellioni, non era per niente maneggevole, nè facile da intaccare nella sua precoce solidità. Sentendosi oscuratamene provocato lo Squarcione sottoponeva il figlio adottivo ad una disciplina ineguale e stancante; gli comandava persino, appena ripuliti i pennelli, di sfaccendare per casa negli umili lavori di garzone. Andrea insorgeva, poi doveva tacere; certo l’energica intransigenza del suo temperamento, ripugnante a qualsiasi forma d’ingiustizia e di prevaricazione, gli fece patire allora quei profondi furori che, domati da un’estrema volontà di razionalizzazione, gli dovevano rimanere dentro, immedicati e inguaribili, per tutta la vita.
Da parte sua lo Squarcione i tali contrasti si gloriava, se, anni dopo, quando la fama del Mantenga era stabilita e consacrata, gridava ai suoi allievi tra promessa e minaccia: “Ho fatto un omo de Andrea Mantenga come farò de ti”. Un uomo e, tale uomo, Andrea era diventato proprio come il maestro; è anche vero, però, che quella pericolosa iniziazione didattica contribuì a maturare rapidamente il ragazzo e, a far coincidere ogni suo colpo d’ira con le possibilità del suo genio. Così accade al giovanissimo artista una cosa inconsueta: senza incertezze, senza errori, egli si manifesta alla prima, in piena luce. E gli accadrà senza flessioni, fino alla morte. Ogni artista ha il suo segreto e, il più chiaro è il più difficile: osservava Charles Du Bos, mentre si disponeva all’approssimazione critica di Gide, che nulla è misterioso quanto una bottiglia di vetro piena d’acqua pura.
Andrea Mantegna è come un solido geometrico di cristallo; ciascuna faccia risponde rigorosamente ad una regola geometrica; ma in realtà i numeri ci sfuggono negli scatti delle molteplici rifrangenze. Tuttavia, qualunque vento interpretativo possa tirare, egli rimane sicuramente un punto inamovibile dell’espressione rinascimentale. E lo è proprio compiutamente, sorgendo tutto nuovo dalla grande favola gotica settentrionale, travolta in quel primo Quattrocento, da una “nouvelle vague†fra le più portentose che abbiamo investito anzi sovvertito il mondo: l’umanesimo. Umanesimo significava Firenze; e da Firenze infatti risalirono l’Italia i toscani, trasmigrati al Nord con diversi ritmi, a Venezia con i più veloci. La ragionativi e concreta Repubblica, allora espansa nei mari e nelle terre d’Oriente in tutta la sua potenza commerciale e politica, sembrava fatta apposta, per assorbire le forme nelle quali l’umanesimo diventava Rinascimento.
Andrea del Castagno a San Zaccaria, i Lamberti a Palazzo Ducale, Filippo Lippi, immettono una corrente inebriante nella vita pittorica veneziana. A Padova, oltre i quaderni di disegni antichi e nuovi, fu Donatello con l’altare e il Gattamelata in piazza a far rivoluzione (e anche il Lippi e Paolo Uccello in gradazione di tempi). La nozione della dignità dell’uomo aveva qualche cosa di solare, irresistibile per la gente del nord: l’uomo di Seneca nelle ricostituite dimensioni del reale s’imponeva e prevaleva sugli astrattismi della teologia. E’bellissimo sentire la potenza della spallata mantegnesca quando egli si scuote dalla tutela dello Squarciane; per quasi sette anni è stato sfruttato, ingannato: “deceptusâ€, come sentenziano i legali nel dargli ragione. Ora, libero, mette casa indipendente nella contrada di Santa Lucia; ha diciassette anni nel 1448; e firma il suo primo lavoro dichiarando con fermo orgoglio nome ed età : un lavoro importante, l’ancona, oggi perduta, per l’altar maggiore della chiesa di Santa Sofia. Di lì a qualche mese una signora dal nome ambizioso, madonna Imperatrice Ove tari, per ornare la sua cappella alla chiesa degli Eremitani, secondo il lascito del marito, spartiva settecento scudi d’oro fra due gruppi di pittori: quattro in tutto, due tradizionalmente goticizzanti, due nuovissimi, Andrea Mantegna e Niccolò Pizolo. Quest’ultimo buon pittore, attento alle correnti nuove, era gran giocatore d’armi, sicché fra lama e lama, una sera che tornava dal lavoro, fu “affrontato e morto a tradimentoâ€, come annota il Vasari.
Era la fine d’Aprile 1453, la cappella agli Eremitani affrescata solo in parte. Si finì di pagare, ma non di dipingere, nel febbraio del 1454. Le cose a mano a mano s’imbrogliarono e, madonna Imperatrice trovò il modo di sdegnarsi quando qualcuno le fece notare che nella figurazione dell’Assunta, gli apostoli erano otto e non dodici. Gli era venuto bene comporre così nello spazio esiguo, spiegò il Mantegna, senza riuscire a convincere la committente. Ed è chiaro che dietro di lei si celasse l’animosità dello Squarciane, trafitto in ogni molecola d’orgoglio dalla diserzione dell’allievo, se, chiamato a giudicare le nuove pitture, si scoprì senza riserve: per lui gli affreschi del Mantegna erano da considerare qualche cosa come statue colorate, ricavate dalla “durezza dei sassiâ€, piuttosto che dalla morbidezza dei pennelli. L’ira gli crebbe quando Andrea se ne andò a Venezia ed entrò nella più viva società artistica del settentrione sposando Nicolosa Bellini, figlia di Iacopo, sorella di Gentile e di quel puro poeta del colore che fu Giovanni Bellini.
Gran comunanza di amicizia fra due famiglie e, piacerebbe avere di Nicolosa qualche briciola di notizie personali. Venendo da quella casa di raffinati pennellatori ella doveva conoscere bene gli usi e le esigenze degli uomini dell’arte; figlia e sorella di gente costumata ed aggraziata anche nelle passioni, qualche cosa di quei caratteri doveva essersi trasferito in lei. I magri documenti su Nicolosa ci dicono soltanto che ella visse col marito in un accordo, che non abbiamo ragione di credere solo apparente; morì prima di lui e allevò alcuni figli, ragazzi operosi e mediocri pittori. Il gran filone mantegnesco e belliniano scomparve del tutto nei loro discendenti, come del resto è naturale che sia: il genio è solitario, trasmigra a suo modo e raramente col sangue. Andrea sposo continuò a lavorare agli Eremitani di Padova, intramezzando il lavoro d’affresco con quadri di commissione. E finalmente la cappella fu compiuta.
Chi ha potuto vedere su quelle pareti di scomoda verticalità le “storie†di san Cristoforo e di san Giacomo e ha potuto sentire l’urto, che quelle apparizioni suscitavano nelle persone disponibili alle emozioni dell’arte, non può che desolarsi ancora e, sempre desolarsi per il crudele laceramento, che le bombe del marzo 1944 produssero nella chiesa frantumando quei muri innocenti e venerandi. In molti piangemmo alla notizia; sapevamo che spariva e, che mancherà senza compenso alle generazioni presenti e future, l’incontro con una creazione di giovinezza severa, creazione compiuta da un artista che, nel passare degli anni dai diciassette ai ventisette, aveva espresso in forme quiete e solenni la speranza di un mondo equamente scompartito, dove la giustizia umana presieda, anche quando appare vinta.
Passa il 1457 ed arriva il 1458. Andrea chiude agli Eremitani e comincia la splendida pala con quella predella di narrazioni animosamente spaziate tra rocce e architetture per la chiesa di San Zeno a Verona. Padova gli pesa, “Padoa che nutre gli altri e, i suoi divora”, come scriverà molti anni più tardi un autore satirico del paese. E di questi tempi arrivava, ripetuto con insistenza, l’invito di Ludovico Gonzaga marchese di Mantova: venisse a stabilirsi sulle rive del Mincio, l’ottimo pittore. Qui la vita era tranquilla, la gente disposta al buon accoglimento, non esistevano fumose scuole pittoriche di arrabbiati. Erano pronti casa, stipendio; alle opere avrebbero corrisposto, liberali e frequenti, i doni, i riconoscimenti, gli onori. Che non fossero parole sul vago, Andrea lo sapeva. Casa Gonzaga era di temperata ricchezza: alla corte di Mantova non si sarebbe trovato la smagliante per quanto improvvisato splendore sforzesco, nè la distillata magnificenza medicea, nè la doviziosa e polposa amministrazione estense. Il marchese Ludovico militava a stipendio e cercava di patteggiarlo alto come facevano signori di terre più ristrette delle sue.
Paese essenzialmente agricolo, il mantovano risentiva non solo delle guerre, delle inondazioni e delle carestie, mali ricorrenti, ma anche delle costrizioni tributarie che Ludovico aveva dovuto imporre, per riparare alle incontrollate liberalità del marchese Gianfrancesco suo padre. Ma a tutti i Gonzaga piaceva spendere per le cose d’arte; tutti credevano nell’umanesimo, anzi ci vivevano dentro come in un umore vitale. I dieci figli di Ludovico, maschi e femmine, crescevano secondo gli insegnamenti di quel singolare cristiano di purezza grecizzante che era stato Vittorino da Feltre: non sotto lui stesso, morto nel 1446, ma nel suo sistema e nella sua scuola, quella “Giocosa” che fu uno dei è più felici fiori dell’umanesimo italiano; vi passarono tra gli altri Ognibene da Lonigo, il Platina, il Filelfo. In casa Gonzaga la considerazione dello studio era tale che Filelfo aveva potuto permettersi di sgridare dall’alto i marchesi, perchè non si curavano troppo, a suo parere, di far uscire il loro primogenito dalla schiera degli ingnoranti.
La marchesa Barbara di Brandeburgo, tedesca, ma allevata da bambina a Mantova, doveva spesso ingegnarsi con i pagamenti e con le spese. Barbara, in perfetta parità col marito, era una donna di singolare quadratura mentale, abile in ogni faccenda, diplomatica e politica, risoluta e gentile. Un piacevole documento ce la mostra mentre con le sue donne se ne va a sedersi sugli stalli, dove erano stati a conferenza il papa Pio II e i cardinali per disegnare la famosa crociata poi fallita: ridevano le donne e, la marchesa stessa imitava la parlata e i gesti di quei grandi personaggi. Ma con tutta la sua lietezza divertita, Barbara, madre di coraggio, anzi madre drammatica, sopportava da valorosa la sventura che la colpiva nei suoi figli: dieci, abbiamo detto, dei quali ella stessa definiva “guasti” (cioè gobbi), almeno quattro: dichiarando poi che ne aveva “una frotta belli e diritti”. In realtà i piccoli Gonzaga non erano molto belli e non erano tutti diritti nemmeno i sei che la madre voleva salvare; ma erano allegri e graziosi, legati da teneri affetti; studiavano tutti il latino e, alle feste virgiliane di Pietole andavano coronati di rose. Virgilio, a Mantova, era un antico nume: il marchese Ludovico sapeva tutto di lui, poeticamente e criticamente.
Ma per quanto seriamente educato allo studio, Ludovico Gonzaga vale meglio per il suo modo d’essere nel proprio tempo. Il suo punto d’incontro col Mantegna non fu come quello di Lorenzo de’Medici con gli artisti fiorentini, un’agile e coscientissima presa di potere intellettuale; ma uno scambio, una verifica d’intuizioni di cultura che coincidevano con impulsi morali: venendo egli da una formazione essenzialmente virgiliana, per la quale anche l’esercizio delle armi, anche gli atti di governo erano operazioni composte in una robusta malinconia; e trovando nelle acquisizioni mantegnesche, offerte come certezze, la disciplina di regole spaziali che nella loro ineluttabilità annunciavano una sorta d’immortalità . Equilibrio, appunto, corrispondente negli spiriti e nelle forme: italiano più che romano, nel senso in cui l’italiano raggiunge una radice universale. Equilibrio non esente da attentati. Proprio perché i due uomini così integri non vi fu mai un minuto di monotonia nelle relazioni tra il pittore e il signore. Si erano riconosciuti a prima vista, se già nel 1461, appena il Mantegna si fu stabilito a Mantova, il Gonzaga, raccomandandolo al podestà di Padova per certe faccende rimaste insolute, lo chiama “il mio carissimo Mantegna, solenne maestroâ€.
Solenne per dire eccellente in assoluto. Quando Andrea mostrava un suo lavoro, una pittura in tavola, in tela o su muro, o un disegno architettonico o un modello per arazzo, o un progetto di decorazione festiva, c’era sempre una frazione di minuto nella quale l’attesa lievitava in ammirazione. Come per continua riprova, il maestro risolveva in immagini infallibili le immagini fluttuanti, a dimensioni vaghe, di coloro che gli erano intorno. Così Andrea sentiva nella sua mano, convalidata dalla venerazione altrui, la veemente sicurezza d’inventare il mondo; e costretto talvolta a subire una sorta d’inadeguatezza fra le sue ascese e le ristrettezze economiche alle quali doveva sottomettersi, si sentiva offeso, dava in proteste e lamentazioni. Sembra incredibile la mansuetudine di Ludovico ed, è pacatamente stoica la sua umiltà quando prega l’artista di pazientare poiché per certi tracolli avuti non ha più denari e, “tutte le zoglie nostre (gioielli di famiglia) sono ad usuraâ€, cioè date in pegno. Confidenza come parità : ecco perché nella Camera degli Sposi, in questa monumentale testimonianza di pittura civile del Rinascimento, il Mantegna potè dipingersi con la berretta bilanciata sul capo, a colloquio con i suoi signori, fronteggiandoli sullo stesso piano.
Molto più di un attimo di sospensione dava ai contemporanei del Mantegna e dà ai posteri la Camera degli Sposi. Non è un’apparizione di forme idealizzate, un’aspirazione ardente ad una nobiltà più che umana come la cappella degli Eremitani, ma un ritrovamento di ciò che abbiamo sempre sentito in noi e, che d’un tratto si manifesta come visione. In questo ritratto di famiglia nessuno è adulato: il marchese Ludovico esprime il suo valore nello suo stesso modo d’essere affaticato, la marchesa Barbara è rilevata in ogni sua durezza germanica; dei loro figli, il cardinale appare come respinto da ogni espressività nel viso appiattito, Gianfrancesco impietosamente dilatato in grassezza Ludovichino e Paolina, i minori, incisi quasi crudelmente nella loro esilità esangue, vicina al rachitismo. Ma nessuno protesta, nessuno si sdegna: a ragione. Un gran sangue circola dietro quelle pareti nella rappresentazioni di un luogo, che è insieme sociale e poetico e, dove in un conchiuso ritmo vitale si compongono le figure, la loggia aereata, il paesaggio lievemente toccato di particolari delicati, il balletto delle giovani gambe dei cortigiani, il cavallone bianco da parata, i cani, i paggi, tutti tonici nel loro realismo e viventi nella pausa di un respiro, sotto quell’occhio aperto in alto su un cielo azzurro, dove abitano deità benigne agli umani.
Se è vero che deve considerarsi compiuto colui che nella sua esistenza abbia fatto un bel viaggio, il viaggio bello del Mantegna non fu a Venezia, né a Firenze, né a Pisa e, nemmeno a Roma; fu un breve trascorrere di giorni sul lago di Garda con amici quali l’estroso antiquario veronese Felice Feliciano, l’architetto Giovanni Antenoreo, il pittore Samuele da Tradate. Se ne andarono in un settembre fresco e soleggiato alla ricerca di anticaglie romane, ricevuti da festosi amici coronati di mirto; si estasiarono davanti a rovine marmoree, decifrarono eleganti iscrizioni; ma più sentirono la grazia struggente della natura nei coloriti fiori, nei “vivai paradisiaciâ€, tra palme cipressi ulivi e soprattutto tra i fitti agrumeti dalle foglie splendenti. Ricordi di questo paesaggio saranno la nicchia erborea traforata di luci nella “Madonna della Vittoria†e le arcate di fitta verdura nella “Virtù che scaccia i viziâ€. Quasi eccezioni, poiché nei fondi mantegneschi ricorre più frequentemente la roccia, il sasso di Monselice, scheggiato, solitario, tagliato a diamante. Una volta sola il pittore fece un diretto omaggio a Mantova; e fu nella tavoletta (ora al Prado) della “Morte della Madonnaâ€. Quasi immaginata la loggia di Castello: e di qua si compone nelle cadenze di un lirismo ordinato, quasi un pianto represso, il letto della Vergine distesa, vegliata dagli apostoli; e di là dalla curvatura serena dell’arcata si allunga il ponte di San Giorgio, attraversando il lago fino alla terraferma in un paesaggio di sfumature lacustri, sotto il gran cielo, patria di ogni fantasia.
Sarà vero, come qualcuno ha scritto, che per restare a Mantova il Mantegna mancò a uno svolgimento più mosso? Passavano per l’Italia Leonardo, Michelangelo, Raffaello, Giovanni Bellini, Giorgine; ma egli rimaneva fermo ai propri rinnovi di energia. Ad uno come lui non sarebbe mancato il modo, andando per l’Italia come pure andava, girando appena intorno quell’occhio penetrativo, di rendersi conto delle tante e varie correnti: ma era nella natura del suo genio aver bisogno di una piattaforma stabile e non di un trampolino di lancio: stabilità alla quale il Mantegna tendeva anche nella vita quotidiana, nella cura di costruirsi casa e studio, di acquistarsi terre, di fissare egli stesso i suoi punti di riferimento. Morì Ludovico Gonzaga nel 1478 e gli successe Federico, il più amabile gobbo che si vedesse mai, adorato dal popolo per la sua indole affabile e riflessiva e per il suo gusto pratico del lavoro industriale e degli scambi commerciali. Era cresciuto dall’adolescenza nella stima del pittore padovano, lo considerava corollario onorando della dinastia e, scuoteva il capo non senza compiacimento, quando Andrea s’incapricciava e si rifiutava di dipingere per altri principi. E’sua la celebre dichiarazione alla duchessa di Milano delusa nella richiesta di un ritrattino: “Questi magisteri eccellenti hanno del fantastico e da loro conviene tuore (prendere) ciò che si può avereâ€. Ma per fragilità fisica Federico regnò solo sei anni, morendo giovane, come la moglie Margherita e, lasciando il posto a Francesco II, il bambinetto che nella Camera degli Sposi mostra il suo profilino rincagnato contro la veste prelatizia del cardinale.
Cambiavano i tempi e, più rapidamente sarebbero cambiati non appena le prime incrinature delle invasioni straniere fossero diventate franamento di ogni pacifica libertà . Ma ancora nessuno prevedeva un avvenire tanto precipitoso; e fu un tempo felice per Mantova il decennio anteriore al 1494, sotto il regno di Francesco, l’allegro, galante, fascinoso Francesco, buon soldato e gran sensitivo, dal viso potentemente segnato, tanto espanso quanto il padre e il nonno Ludovico erano stati ritenuti e malinconici. Una ventata di giovinezza rinnovava la corte dove comandava un signore diciottenne tra fratelli e sorelle tra i quindici, dodici e dieci anni; e in quella ventata il Mantegna ideava la sua serie del “Trionfo di Cesareâ€, esprimendo con un’eccezionale inventività un’archeologia romantica del tutto diversa come ispirazione e significato dalla potente dinamica interiore della Camera degli Sposi. Da Roma richiedevano il Mantegna e, Innocenzo VIII Cibo, genovese, gli faceva decorare con avari compensi una cappella in Belvedere, che più non esiste. Sempre immerso nel centro della sua opera, Andrea dipingeva: la città color d’ocra bassa, dolce e torbida, stravagante di raffinatezze e di brutalità , lo deludeva.
La sua Roma era un’altra, aveva un accento di limpidezza nordica, era rimasto col “Trionfo†nel Castello in riva al Mincio. E, nel tempo della sua dimora romana, che lo vide anche gravemente malato, entrava a Mantova, festeggiatissima sposa di Francesco, Isabella d’Este, seguita da sette cassoni di corredo dipinti da Ercole de Roberti, il gran pittore ferrarese che avrebbe dovuto aspettare secoli, per essere riconosciuto nelle sue purezze metafisiche. Forse in un primo tempo Isabella, come tutte le donne famose per intelligenza, parve temibile al Mantegna che doveva diffidare di lei e, ci mise un pezzo a tornare a casa. Se così non fosse non ci spiegheremmo la lettera di un cortigiano, che raccomandava alla nuova marchesa di bene accoglierlo al suo ritorno e, le assicurava che avrebbe trovato in lui, oltre ad un grande artista, un uomo gentilissimo. Lei che veramente capiva le cose gli fece gran festa e, seppe volgere a proprio favore il prestigio, che dal grande padovano s’irradiava per tutta Italia. Fu proprio il Mantegna, però, a suscitare in Isabella un personale momento polemico quando il pittore la ritrasse nel 1493, non ancora trentenne, in un quadro destinato ad una dama sua amica: “ne ha tanto malfatta†ella scrive, che l’immagine “non ha le nostre simiglieâ€. Memore di questa esperienza, non volle essere ritratta a riscontro del marito, come era stato progettato, in quella “Madonna della Vittoriaâ€, che celebrò l’illusorio trionfo di Fornivo sul re francese Carlo VIII.
Tuttavia Isabella riuscì con la forza irresistibile della sua persuasività a piegare il Mantegna ad un’esperienza nuova commettendogli quadri per il suo famoso Studiolo. Simboli, allegorie, composite narrazioni che sollecitavano immagini raffinate: chissà se il pittore consentiva a quelle mitiche battaglie, a quei ritmi danzanti pur così vividi sotto il suo pennello? Erano gli ultimi anni della sua vita, venivano a visitarlo capi di stato, Ercole d’Este, il Magnifico Lorenzo, signori, umanisti, poeti, antiquari. Lui teneva studio in San Sebastiano, in quella che si potrebbe chiamare la “casa della ragione†tanto entrando nel cortile arcuato a giro di compasso, s’impone la presenza di ariose geometrie. Dentro vi stava una collezione di oggetti di scavo e vi stavano alcuni quadri dai quali egli non si separò mai, come il “Cristo scurto†ora a Brera, dove lo stesso delirio prospettico diventa amara poesia. Ma chi era veramente il Mantegna? Nemmeno i suoi critici sono riusciti a dedurlo esattamente dall’esame delle sue opere. Anche le contraddizioni, soprattutto le contraddizioni, fanno l’uomo di genio; e non ci stupisce che il Mantegna fosse per alcuni “indemoniatoâ€, “rincrescevoleâ€, “superbo e fastidioso†e, per altri “tutto gentileâ€, “amico incomparabileâ€, “di costumi amabilissimiâ€. In realtà dai documenti ci appare dolce e furioso come sono molti della sua terra. Normalmente casto (non esistono pettegolezzi su di lui e, ci sarebbero senza dubbio arrivati), aveva persino una punta di austerità moralistica, inconsueta alle sciolte abitudini rinascimentali, se con tanto impeto sapeva accusare taluno di costumi depravati.
La costrizione dell’adolescenza che aveva dovuto armarsi a difesa per salvare una vocazione, la passione di razionalizzare ogni proprio moto, il logoramento dell’immaginare e del penetrare nelle proprie immagini gli avevano lasciato quei grumi di rabbia, che si liberavano in grandi fumate di collera, a volte persino ambigue. Forse lo junghiano di turno sarebbe pronto a spiegarci che una razionalità così rigorosamente mantenuta a spese dell’intensità di vita condannò la sua personalità nella parte primitiva, ad esistere in un modo sotterraneo e appunto, a tratti, ad esplodere. E che significa, diremmo noi appassionati d’Arte sopra ogni cosa, allergici alle analisi psicologiche? Anche se fosse vero, non per questo la Camera degli Sposi sarebbe meno il ritratto rigoroso di un destino umano e della sua accettazione, o le Madonne mantegnesche sarebbero meno eroine intense e sospese, nel loro stesso allontanarsi; e lo ieratico “San Sebastiano†alla Ca’ d’Oro balzante e tormentato ci comunicherebbe meno il grido di tragedia, nel momento in cui la saetta della sorte apre nel petto umano l’ultimo dolore. Ciò che sappiamo è tutto nella Sua pittura magistrale, il riflesso di un Diamante puro, inscalfibile ed impenetrabile che irradiò la sua lucentezza solenne ad seacula seaculorum: un Diamante che risponde al Nome di Andrea Mantegna!! Vostra Elena P.