Il giovane Dorian Gray ottiene grazie ad un sortilegio l’eterna giovinezza, intrappolando la sua immagine che invecchia in un quadro. Egli si abbandona ad ogni tipo di vizio, arrivando anche ad uccidere il suo compagno d’avventure, ma in un impeto di disperazione sfregia il suo ritratto cadendo poi morto ai suoi piedi mentre riprende le fattezze reali di vecchio: il leitmotiv, insito nella trama, è il binomio bellezza ed eternità, coscienza e immoralità, maschera e verità di un capolavoro elegantemente scritto e straordinariamente emblematico.
Il romanzo “Il ritratto di Dorian Gray”, apogeo della narrativa wildeana, esce sulla rivista americana “The “Lippincott’s Monthly Magazine” nel luglio 1890 e, il suo collegamento alle chiacchierate vicende dell’autore gli garantisce fin dall’inizio un notevole successo; per questo ne è subito approntata una versione in volume, che esce l’anno successivo, notevolmente accresciuta. Wilde infatti aggiunge all’originale (di cui vanta una stesura velocissima) ben sei capitoli per renderlo più in linea con i gusti del tempo e con le dimensioni medie di un qualsiasi romanzo di quegli anni, anche se in seguito la critica non ha mancato di sottilineare il “pessimo servizio”, che le aggiunte hanno fatto all’opera, “sottraendo rapidità e tensione e, soprattutto mistero”.
Comunque sia, il romanzo è fra gli scritti che più si prestano ad illuminare la filosofia wildeana. Gli antecedenti letterari della vicenda del giovane inattaccabile dagli anni e dal vizio, i cui segni visibili vengono invece trasferiti misteriosamente su un suo ritratto, non mancano, nella narrativa dell’Ottocento (“Melmoth il vagabondo” di C. Maturin, prozio di Wilde; “Pelle di zigrino” di H. Balzac; “Vivian Gray” di B. Disraeli; “Il ritratto ovale” di E. A. Poe), anche se occorre dire che lo scrittore irlandese ha raggiunto, nella descrizione di questo diabolico ribaltamento dei normali rapporti fra soggetto e sua immagine, i risultati senz’altro più avvincenti.
L’incorrutibilità del corpo di Dorian di fronte alle ingiurie del tempo e soprattutto del vizio, dovrebbe necessariamente comportare per il romanzo una lettura in chiave morale; in realtà è lo stesso Wilde a vietare, prima, durante e dopo la stesura dell’opera, interpretazioni di tipo etico. In più di una lettera al direttore della St. James’ Gazette (il cui critico letterario ha stroncato come immorale il romanzo) Wilde può tranquillamente rispondere che “la sfera dell’arte e la sfera dell’etica sono assolutamente distinte e separate” e che solo nella puritana Inghilterra è ipotizzabile un così duro attacco all’autonomia artistica (in Francia quel critico moralista “farebbe la figura dello sciocco non soltanto agli occhi di tutti i letterati, ma agli occhi della maggioranza del pubblico).
Per un ‘interpretazione per così dire proibita dell’autore stesso, molte altre ne nascono a garantirne l’importanza storica e a spiegarne il gradimento pressoché continuo del pubblico. Il Ritratto è infatti contemporaneamente eccezionale documento autobiografico, testimonianza insostituibile su una fase assai particolare della vita inglese del secondo Ottocento, saggio di estica decadente.
Che sia un documento autobiografico ce lo confermano ce lo confermano Dorian e soprattutto Lord Henry Watton, anch’egli, come il suo autore, filosofo da solotto, mondano e cinico ostentatore di eccentricità, così come ce lo conferma la figura del pittore Basilio Hallward innamorato del suo modello, che anticipa misteriosamente (secondo la convinzione wildeana che spesso la Vita imita l’Arte) il rapporto di Wilde col bellissimo Alfred Douglas.
Quanto al saggio di estica decadente il romanzo, se concede non poco agli aspetti deteriori dell’estetismo, col suo datato e ai nostri occhi un po’ buffo “bric-à-brac” di pietre colorate, tapezzerie cinesi, resine profumate, “tulipani screziati e iridi purpuree” (in gran parte estrapolati da “A ritroso”, “quell’iperrealistico studio di Huysmans circa il temperamento artistico della nostra inartistica età”), rappresenta soprattutto il miglior raccolto della semina di Walter Pater e delle sue teorie sulla vita, che si realizza solo ed esclusivamente nella forma estetica.
Resta da sottolineare il valore del romanzo come documento di un’epoca breve ma assai caratterizzata: da questo punto di vista la violenza con cui l’opera venne attaccata, la rilettura che se ne fece ai tempi del processo per scovare tracce di passioni non consentite dal vivere civile, sono la prova più tangibile di quanto Wilde avesse colto nel segno, scegliendo la strada più diretta, lo scandalo, nella sua azione di sconvolgimento del falso moralismo vittoriano.
Sta soprattutto in questo la modernità del romanzo, in questo fastidio ormai incontrollabile nei confronti di una società vecchia e falsa, in questo desiderio che un mattino “i nostri occhi possano aprirsi su di un mondo tutto rinnovato…un mondo in cui il passato poco o nulla si palesi, o sopravviva comunque in forme ignare del rimorso o del rimpianto…”.
Ecco il senso più nobile e intrinseco della poetica wildeana: saper guardare al futuro con lievità e soavità d’animo, nella consapevolezza che il tempo fuggito non debba tornare con identico volto, ma sedimentare con intensità e con coinvolgimento d’esperienza tra le pieghe della personalità. Buona lettura, miei Cari!! Vostra Elena P.