Ha ventinove anni Dino Buzzati, nel 1935, quando pubblica il suo secondo libro, “Il segreto del bosco vecchio” (pag 200, edizioni Oscar Mondadori, costo 9,50 euro). E se era stata involontaria l’apparizione del romanzo d’esordio (Bàrnabo delle montagne, del ’33), ora è intenzionale la stampa di “Il segreto”, nonostante la non esaltante accoglienza del testo precedente da parte di critici e recensori e, tenuto conto che il momento è difficile (l’Italia è in guerra con l’Etiopia, la Società delle Nazioni ci isola dal contesto mondiale, Hitler inaugura le leggi razziali, Mussolini si consolida e la censura cresce, inaugurando un tempo di vita fittizia e stranita, in apparenza intransigente ma in realtà corrotta e licenziosa). Il fascismo ha ormai realizzato la cultura dell’azione e il suo primato sulle categorie del pensiero.
Molti gli scrittori sommersi dalla propaganda; pochi gli scampati, attraverso le vie del bello scrivere, dell’ermetismo, del realismo magico, dell’evasione. Dal canto suo, Bosco Vecchio è un mito: è la foresta sacra dove affondano le loro radici l’infanzia dello scrittore e quella dell’umanità, dimensione incontaminata che simbolizza la vita come forza gioiosa e gratuita, disinteressata ed eterna, sopra le transitorie, ancorché obbliganti, fenomenologie dei poteri. Alla morte di Antonio Morro, la sua sterminata tenuta boschiva va in eredità, nella sua parte più contenuta ( il “Bosco Vecchio”, appunto), al nipote Sebastiano Procolo; nella sua restante e maggiore estensione, al nipote di Sebastiano, il dodicenne Benvenuto, per ora in collegio. Bosco Vecchio è abitato da un popolo di “geni”, custodi degli alberi, titolari della magica possibilità di trasformarsi a piacere in animali o in uomini, nonché di uscire dai loro domestici tronchi per vivere una vita del tutto uguale alla nostra.
Il “genio” Bernardi, una sorta di anziano patriarca di questa fantastica comunità, alla notizia del trapasso, si reca dal nuovo padrone, il colonnello Procolo, intenzionato a conoscere la sua volontà. “Bosco Vecchio” era sempre stato rispettato e, grande è l’angoscia di Bernardi quando viene a sapere che ora la selva sarà sistematicamente abbattuta, in vista di un intensivo sfruttamento delle sue ricchezze. Visti inutili tutti i suoi sforzi di dissuasione presso il nuovo proprietario, Genio Bernardi, per evitare la strage del suo popolo, pensa di ricorrere a Vento Matteo, un vento tanto dannoso da essersi meritato l’esilio in un antro montano. Ma prima di lui arriva l’astuto colonnello, che malvagiamente lo libera, per farsene strumento d’incondizionata obbedienza contro gli scomodi abitatori del bosco.
Ai quali non resta, per ora, che promettere a Procolo una sistematica quantità di legname in cambio della vita loro e delle loro piante. Ma ben presto Procolo vuole per sé l’intero appezzamento, vale a dire anche la parte di Benvenuto. Un giorno che il ragazzo visita il bosco, comincia a scagliarli contro Vento Matteo, per fortuna senza risultato (anche perché, durante la sua lunga assenza dalla valle, il suo posto è stato preso dal tutt’altro che cattivo Vento Evaristo, ma suo inesorabile rivale). Il desiderio di togliere di mezzo Benvenuto non si arresta al primo tentativo. Il colonnello tenterà ancora di sbarazzarsi del ragazzo, per ben due volte.
Molte cose accadono ancora in “Bosco Vecchio” (tra le altre, un flagello di larve divoratrici, cacciate a stento dal Vento Matteo, sempre agli ordini del colonnello). Ma le sue mire continuano, finché un giorno, quando sembra che per Benvenuto,nel frattempo ammalatosi gravemente, non ci sia più alcuna speranza, l’intero bosco si solleva, processa e condanna Procolo che piomba nel più assoluto isolamento materiale e morale (persino la sua ombra, vale a dire la sua coscienza, lo abbandonerà). Ma ecco: dopo aver tanto desiderato la morte del ragazzo, il colonnello comincia a provare affetto per lui. I rapporti s’invertono: Procolo invoca per Benvenuto l’aiuto dei “geni” (sollevandoli da ogni obbligo e schiavitù). Ma Vento Matteo, che non sa del cambiamento d’animo del suo “signore”, in un ultimo tentativo di riscuotere la sua ammirazione, annuncia falsamente a Procolo che Benvenuto è morto sotto una slavina. Non è vero, ma il colonnello non lo sa. Un’onda di pietà e, forse di vergogna assale Procolo che corre sul luogo della disgrazia, mettendosi a scavare, solo, nella notte. Sarà la sua morte, nell’estremo tentativo di salvare il nipote. Il conto si pareggia e Procolo riacquista la sua dignità di uomo. E anche quella di colonnello se, con le luci dell’alba, sorgono pure i fantasmi dei suoi vecchi compagni d’armi, in parata di gala, per scortarlo nel paese delle anime.
Una trama ideale, è chiarissimo, sovrasta il mero intreccio dei fatti. Aveva detto Genio Bernardi al colonnello Procolo: “A una certa età, voi, uomini, cambiate. Non rimane più niente di quello che eravate da piccoli”. E a Benvenuto stesso: “Ma anche tu un bel giorno non ti farai più vedere e anche se tornerai non sarà più la stessa cosa (…) Domani comincerà per te una nuova vita,ma non capirai più molte cose: non li capirai più, quando parlano, gli alberi, né gli uccelli, né i fiumi, né i venti”. Ristabiliti gli effetti della profanazione al tempio della natura,il ragazzo lascerà l’età verde,il meraviglioso tempo in cui tutto è incanto e dolcezza, e ogni sogno possibile, per entrare nell’età della coscienza, ma più rischiosamente in quella dei nefasti compromessi della ragione.
Finita la favola, perduta l’innocenza, Benvenuto cessa di essere bambino, cominciando a correre tutti i rischi della vita, cominciando soprattutto a patire, sia la cognizione del dolore che il dolore della cognizione. Ma restiamo per ora a “Bosco Vecchio”, al fantastico buzzatiano che vi anima personaggi e paesaggi e, vi fa parlare esseri normalmente muti o inanimati, li fa riflettere, agire, giudicare. In tutti i suoi libri Buzzati ha saputo fondere realtà e stravaganza, logica e assurdo, rigore e bizzarria, metodo e prodigio, e Bosco Vecchio non ci sorprende se nelle sue pagine un animale ha parole umane e una foresta si muta in una società.
Non è debitore a nessuno, Buzzati, della sua concezione del fantastico letterario. Non si trovano nei suoi testi gli spiccioli di un Todorov (per cui il fantastico è una “esitazione” tra naturale e soprannaturale), o di un Borges (che lo assimila al caos), o di un Casares (che lo ritiene un gioco filosofico e intellettuale), o di un Kafka (che lo sposa all’assurdo tragico di una condanna senza colpa). Il fantastico di Buzzati è un inno all’infanzia, uno spazio di libertà dove abita il desiderio di capire il mistero, l’ignoto, il plausibile. E “Bosco Vecchio” è l’eden perduto (quello ancestrale e collettivo dell’umanità intera, e quello personale e privato della verginità coscienziale dei primi anni di vita). “Bosco Vecchio” è la “selva oscura”, l’incantata foresta d’infanzia dove alberga la pura e inatteggiata creatività della poesia.
Un “fantastico”, questo di Buzzati, reso per altro con linguaggio orizzontale, ingenuo, persino, facile e a volte patetico,o romantico meglio. Ci fa credere nell’incredibile perché i suoi segreti, le sue magiche coincidenze, le sue rivelanti metamorfosi, i suoi suscitanti sortilegi, sono un inverosimile che ci aiuta a esaurire il verosimile. Alla fine,con travolgente sorpresa, ci accorgiamo che Buzzati non inventa troppo, e neanche molto. Solo la menzogna ha bisogno di essere inventata. E se anche Voi, nostri adorati Lettori, siete alla ricerca della verità che ammalia e stupisce, senza tediare con retoriche moralistiche, allora siete pronti per le pagine del Gigante Buzzati. Buona lettura! Vostra Elena P.