C’era una volta una bambina che passeggiava in mezzo al bosco con la mamma da poco separata e il fratello maggiore. Cammina cammina, a un certo punto, stanca dei continui battibecchi fra i due, si appartà un momento fra gli alberi per fare pipì in santa pace. Terminata la bisogna, anzi il bisognino, decise d’imboccare una scorciatoia: “Li raggiungerà subito”, pensava. Errore! Mai lasciare il sentiero battuto, quando si hanno solo nove anni e ci si chiama Cappuccetto Rosso!
Piano, piano. Non facciamo con confusione: la nostra eroina fiabesca si chiama Trisha MacFarland, come una celebre marca di birra irlandese, la protagonista di “La bambina che amava Tom Gordon” (pag. 302, editori Sperling & Kupfer, costo 17,50), racconto ricco di brividi e suspense, ispirato alla notissima opera di Perrault ripensata in chiave moderna dal re nell’horror. Trisha non indossa un cappuccio color rosso-fiaba, ma è tifosa dei Red Sox di Boston e in particolare del lanciatore Tom Gordon. E anche lei,perdutasi nel bosco come la sua antenata fantastica, finirà per trovare qualcosa di assai simile al lupo cattivo, con l’inevitabile cacciatore al seguito.
Sulla falsariga di una storia che, come tutte, ci è già stata raccontata, King costruisce una foresta di Arden del suspense psicologico, seguendo l’erranza di Trisha fra boschi e torrenti e paludi, in una durissima scuola di sopravvivenza, dove solo la presenza confortante di un walkman e la proiezione mitica di Tom Gordon, col dito alzato verso il cielo come dopo ogni salvataggio riuscito, guideranno la ragazzina attraverso mille insidie, dai serpenti alle vespe, alla misteriosa “cosa” sempre in agguato nel folto, che costellano il cammino di chi s’è smarrito nell’infinita solitudine di una natura, subito pronta a rivelare all’essere umano il proprio lato ostile.
“La foresta è reale. Se doveste andarci in gita, portatevi una bussola, portatevi buone carte topografiche, e cercate di rimanere sul sentiero”- raccomanda King all’ultima pagina. Eppure certe volte, sarebbe meglio abbandonare le strade battute, come dimostra l’incidente capitato al romanziere una decina di anni fa. In circostanze così vere da sembrare inventate. Se dar corPo e sostanza reale alle proprie fantasie è aspirazione di ogni vero scrittore, King è andato più in là :ha rischiato addirittura, a suo tempo, di farsene uccidere.
Nel camper che lo ha investito, mentre passeggiava su una strada frequentata pochissimo, in mezzo ai boschi del Maine, non è infatti difficile riconoscere un parente stretto di “Christine, la macchina infernale” del romanzo omonimo del 1983, in cui una Plymouth del 1958 figurava come malefica protagonista di un'”autentica horror story automobilistica”. E le analogie inquietanti non finiscono qui. Il guidatore del camper che ha investito il re dell’horror, infatti, ha perso il controllo del mezzo, perché disturbato dal cane che aveva a bordo, improvvisamente impazzito. Proprio come succedeva a Cujo, il sambernardo di cento chili (protagonista di un romanzo kinghiano del ’81) che, divenuto idrofobo per il morso di alcuni pipistrelli, attaccava una donna e il figlio intrappolati dentro un’autorimessa.
Ma la coincidenza più sorprendente e decisiva è quella con gli scrittori protagonisti dei romanzi “Misery” del 1987 e “Mucchio d’ossa” del 1998, anch’essi fatalmente vittime d’incidenti stradali. Insomma, è come se la vita fosse diventata un’assidua lettrice di Stephen King, divertendosi a mescolare le trame dei suoi romanzi fino a rendere la fiction fin troppo simile alla realtà e l’autore quasi indistinguibile dai suoi personaggi. L’orrore nascosto dietro l’angolo, di cui King è il piccolo Poe moderno, è sempre pronto a colpire. Sia chi si perde nel bosco, sia chi cerca, fiducioso, di rimanere sul sentiero. E il Lupo cattivo rimane sullo sfondo, come solo un lontanissimo ricordo o forse un mancato protagonista di cui si sono perse le tracce nelle mistery stories Kinghiane. Buona lettura e siano benvenuti a rinfrescarci i “brrrrrividi di paura” in questo Maggio bollente!! Vostra Elena P.