Se il 2 luglio del 1961 non si fosse sparato una fucilata in faccia, senza pietà per i suoi milioni di lettori, ma con molta pietà per se stesso, se fosse sopravvissuto alle sue crisi maniaco-depressive, Ernest Hemingway, Mister Papa, avrebbe compiuto, il 21 luglio del 2009, centodieci anni. E’ stato un mito per più generazioni, attraversando indenne guerre e rivoluzioni. La sua eccellenza letteraria resta indiscussa: “Fiesta” è un libro, ad esempio, che comunica l’identico malessere trasmesso dai libri di Dostoevskij e Kafka; “Per chi suona la campana” è il “Guerra e Pace” del Novecento; “I quarantanove racconti” riassumono da soli, l’arte narrativa americana, da Twain a Norman Mailer.
Ernest si uccise nel 1961, come aveva giò fatto suo padre trentatrè anni prima; lo scrittore, vincitore del Nobel nel 1954, era nato ad Oak Park, nell’Illinois, nel 1899. La sua maestria giornalistica rimane insuperata. E, dal punto di vista esistenziale, ci sono forse biografie del Novecento più affascinati della sua? Per non parlare della sua bravura nel fare pubblicità a sè stesso. Eppure la sua festa di compleanno, l’estate prossima, rischia di scatenare i pruriti polemici dei soliti “bastian contrari” di professione. Già molti colleges americani propendono per metterlo sotto accusa, in nome delle ipocrisie del politicamente corretto.
I primi ad avventarsi, immaginiamo, saranno i verdi, i naturalisti, gli animalisti. Parleranno in difesa dei tori, dei leoni, dei cervi, dei rinoceronti, dei marlin, dei dorados: imputeranno Hemingway per strage. Toccherà poi, si presume, ai pacifisti che, sfogliando “Addio alle armi” (giammai, quel titolo che da subito tradisce un chiaro rimpianto per gli arsenali bellici), gli daranno di guerrafondaio. Si alzeranno strepitando anche i non-violenti che si battono per l’abolizione del pugilato: la noble art che Ernest non si limitò a guardare e raccontare (non è forse “Cinquanta bigliettoni” la storia più bella scritta sul mondo della boxe?) ma pure praticò da focoso dilettante. Subito dopo, in questa festa alla rovescia, si faranno avanti gli alcolisti anonimi e i salutisti in genere, che rimbrotteranno l’uomo che celebrò il Daiquiri, il Monito, il vino spagnolo (da bere direttamente a garganella dalla fiasca) e il Martini (ricetta personale di Mister Papa: versare gin e ghiaccio in un bicchiere, prendere la bottiglia di vermouth, svitarne il tappo, passarla velocemente sul bicchiere badando bene a non lasciarne cadere nemmeno una goccia, l’importante è catturarne l’aroma, il profumo, riavvitare il tappo, sedersi e bere).
Ernest, sommariamente l’etilista, sostenitore di teorie ardite e fervide come la sua creatività, come quella che lo champagne, il Dom Perignon in particolare, si poteva consumare, tranquillamente, a fiumi, perchè bevanda assolutamente analcolica. Ma, in realtà, Ernest non era un ubriacone, reggeva l’alcol molto bene e, spesso, posava a gran bevitore per alimentare la sua leggenda. E’ quanto conferma il capitano Gregorio Fuentes nelle sue memorie. Nell’ultima parte della sua vita Hemingway soffriva di complessi di persecuzione, indotti dalle sue crisi esistenziali: innocui commessi viaggiatori, vestiti di scuro per esigenze personali, venivano da lui scambiati per agenti dell’Fbi con in tasca mandati d’arresto contro di lui. Ma quei deliri sono nulla rispetto ai nemici che attendono impazienti di sferzare i loro strali velenosi, durante la data del suo anniversario di nascita.
Non mancheranno tra le voci ostili quelle delle legioni che in nome della New Age, la più grande circonvenzione d’incapaci nella storia del pianeta, si scaglieranno contro l’autore della preghiera più antispiritualista mai composta: l’invocazione al “nada”, al niente, lo sconfortato e blasfemo “Padre nostro” che comincia col verso “Nada nostro, che sei nei cieli”. E alla fine, a completare la festa arriveranno le post-femministe a processarne il vieto machismo. Questo vituperato Scrittore-maschilista (attenzione, giochiamo sul filo di un’ironia beckettiana!!) convinto che l’uomo vero, non solo è cacciatore ma è anche pescatore. Come dimostrano con frequenza da ossessione, con pignoleria da monomania, i suoi libri (non vinse forse il Nobel con il racconto delle sevizie ad un incolpevole pescespada? Non celebrò in tutte le sue novelle i buana bianchi e i loro cruenti safari?). Lui che quando si trattò di definire la morte, non trovò frase migliore della seguente: “La morte? E’ una sgualdrina come le altre”. Ernest fu un viscerale appassionato di pesca. A Cuba si assegna ancora, ogni anno, un premio per pescatori, intitolato allo scrittore americano.
Combattivo Ernest, che compleanno cruento ti aspetta. Il mondo in cui vivevi, sembra sfumare nell’indistinto dei mediocri tempi di oggi. Le cose in cui credevi sono diventate negative, agli occhi dei “Falsi Profeti” della modernità. Le tue passioni sono oggi considerate perversioni machiste. Fortunatamente, qualche amico di un tempo ha deciso di passare al contrattacco, ristabilendo la verità sull’Uomo e sullo Scrittore. Nel 1998, il vecchio Gregorio Fuentes, il capitano del Pilar, la barca di Ernest, ha raccontato i suoi ricordi a Fernando Izquierdo e Marcelo Gorajuria in un libro, “Hemingway e il capitano”, pubblicato dalla casa editrice “Baldini e Castoldi”, corredato da una serie di foto per le quali è il caso di usare l’aggettivo struggente. L’amicizia tra Mister Papa e il Capitano Fuentes, il marinaio che ha deciso di raccontare le sue memorie di pesca e di vita, caratterizza il periodo cubano dello scrittore. Se si dovesse suddividere la vita di Hemingway in periodi (sulla falsariga dei periodi di Picasso), verrebbe fuori una mappa geografica.
Esiste, infatti, un periodo americano che va dalla nascita allo scoppio della Grande Guerra, un periodo italiano (Grande Guerra e dintorni), poi un periodo parigino, uno spagnolo, uno cubano più gli intermezzi africani. Di certo a Cuba, assieme a Gregorio, Hemingway visse anni felici. Le memorie di Gregorio, che ripercorrono le stagioni cubane dello scrittore, coprendo un arco di tempo, che va dagli anni Trenta agli anni Sessanta, ci restituiscono un Hemingway in carne e ossa, con il suo camminare leggero e saltellante da pugile, la sua gentilezza che incantava, le sue permalosità (guai a toccargli i capelli pettinati tutti in avanti in un ingegnoso, quanto evidente e disperato, riporto), la sua munifica ospitalità, la sua generosità . Una commovente testimonianza di devozione e amicizia. Gregorio fu il suo capitano e il suo cuoco. Così gli cucinava a bordo del Pilar gli spaghetti durante le partite di pesca d’altura: “Io preparavo gli spaghetti secondo una ricetta diversa da quella italiana- racconta Gregorio- mettevo nel soffritto un pò di pancetta, poi facevo friggere per bene un pollo e quand’era cotto lo toglievo dalla padella e nel condimento rimasto buttavo la pasta; nel soffritto aggiungevo anche un pò di soppressata allega, il pomodoro e altri ingredienti”. Buon appetito, Mister Papa.
Gregorio fu il suo amico più fedele (assieme a Black Dog, lo spaniel che gli si accucciava ai piedi mentre scriveva) e ancora oggi sarebbe pronto a ribadire ogni cosa, per proteggerne il buon nome. Gregorio è il suo avvocato difensore contro ogni insinuazione femminista: “Non era un donnaiolo, al contrario, non era il tipo che si metteva a parlare di donne come fanno tanti. Se faceva qualche commento era comunque discreto, in segreto, non l’ho mai visto fare nessuna scorrettezza o parlare a sproposito di qualche donna”. Per Gregorio, come per tanti altri, Ernest fu un padre. “Devo dire anche un’altra verità- scrive Fuentes- Hemingway fu un vero amico per me. Me lo dice il cuore. Quell’uomo per me fu come padre”. I pescatori che si vedono nelle foto al ristorante “La terrazza”, quando lui morì vennero a chiedermi di andare a parlare con un mio amico scultore, per fargli fare un busto, che poi è stato messo nella piazzetta di Cojimar. E il costo della statua lo pagarono quei poveri pescatori, che adoravano Ernest”.
Uno scrittore è veramente grande quando diventa un aggettivo. Cioè uno stile di vivere (e non solo di scrivere), una maniera di vedere il mondo. Tra i sacramenti l’arte di scrivere somiglia a quella del battesimo: si tratta di dare un nome alle cose. Hemingway ha dato il suo nome (in termini laici, di marketing, si direbbe il marchio, l’etichetta, la griffe) a tante cose: certe Fotografie dotate di un fascino e di un’intensità inimitabili come lo Scatto meraviglioso che spicca nella Presentazione di Patron Giuseppe Borsoi; certi pomeriggi spagnoli; certi arrivi a Venezia, certe insonnie a Parigi mentre intorno la città brucia; certi rimorsi che non sembrano avere nè padre nè madre; certi torrenti di primavera, certi silenzi in un’arena; certi orizzonti sul mare; certe ferite inconfessabili di uomini; certe risate stridule come pianti di donne. Certe intere vite sono state hemingwayane: quella di Orson Welles, quella di John Huston, quella di Graham Greene, quella di Valerio Zurlino. E per stare alla cronaca italiana, hemingwayana è stata anche la parabola esistenziale di Raul Gardini. Ogni generazione ha avuto il suo Hemingway. Manlio Cancogni ha racconti affascinanti ed esaltanti sulla scoperta di Hemingway, sull’arrivo dei suoi libri in Italia.
Chi è nato intorno agli anni Cinquanta, ricorda il cofanetto degli Oscar Mondatori che comprendeva “Fiesta”, “Addio alle armi”, “Avere e non avere”, “Verdi colline d’Africa”, “Per chi suona la campana”, “I Quarantanove racconti”. Era un cofanetto con disegni a colori di tori, di guantoni, di leoni, costava poche lire, ma dentro quelle pagine ti perdevi come nella biblioteca di Alessandria. C’è un romanzo di Moravia che mi sovviene quando affronto la vicenda umana ed artistica di Ernest. Si tratta de “Il disprezzo” e, a un certo punto vi si fa un paragone tra l’Ulisse di Omero, eroe degli spazi aperti che vaga per il Mediterraneo, contrapposto all’antieroe di Joyce che si muove dentro una Dublino claustrofobia e del quale viene perfino raccontato ogni più intimo e segreto dettaglio. Come siamo caduti in basso, diceva quel personaggio di Moravia, come è finita la cultura occidentale che prima raccontava peregrinazioni in alto mare e, poi si è chiusa a chiave per spiarsi in una stanza da bagno!
Hemingway è stato l’ultimo scrittore che ha cercato di tenere assieme i due Ulisse, di non separare il corpo dalla mente, l’azione dalla riflessione, la vita scritta (cioè pensata) da quella vissuta, ribellandosi all’idea che la vita può essere inventata solo nei romanzi e non anche nell’esistenza di tutti i giorni. Santiago, l’Achab senza Balena Bianca, il povero pescatore protagonista de “Il Vecchio e il mare”, ma è ancora un Ulisse omerico, o almeno la sua controfigura. Ma è anche l’Ulisse di Joyce. Alla deriva sulla sua barchetta si abbandona a un monologo interiore che è un’Odissea ridotta all’osso, come il pesce che ha catturato, di cui resterà alla fine del viaggio solo la nuda carcassa. “Il vecchio e il mare” è stato il romanzo più criticato di Ernest, fu detto all’epoca (1954) dell’assegnazione del Nobel che era il libro della sua crisi, il segno del declino di un grande narratore, il quale poteva ormai fare il verso a se stesso indugiando in un’imbarazzante prosa parabiblica. Il Nobel, come sempre, arrivava tardi. Eppure su quella barchetta persa nel mare dei Carabi che non aveva nemmeno lontanamente la possente struttura del Pilar (tutto costruito con tavole di legno intere, come ricorda nel suo libro, con orgoglio, Gregorio), Hemingway aveva imbarcato, come una specie di arca di Noè, tutto il suo mondo.
Li si corrompeva per gli effetti combinati e devastanti dell’acqua, del sale, del vento, del sole (degli agenti del mondo aperto di Omero), il mito che Ernest aveva edificato di se stesso. Il mito del ragazzo che pescava nei torrenti, il mito del buon soldato ferito in guerra, il mito dello scrittore che aveva fatto tutte le esperienze, il mito del capitano coraggioso. L’altro capitano coraggioso, sopravvissuto ad Ernest per molti anni (è morto a 104 anni nel 2003), se ne stava sovente vestito di chiaro, in testa un berretto blu con visiera (come quelli di moda tra i ragazzi d’oggi), nella sua casa (bianca, piccola, fresca), che si trovava nella parte alta del paesino cubano di Cojimar. Gregorio di solito stava seduto su una sdraio e riceveva volentieri i pellegrini, che vanno fin là in cerca di reliquie hemingwayane. Prima del tramonto faceva un giretto, si fermava alla Terrazza dove campeggiavano alle pareti, sopra l’alto bancone di legno, fotografie dello scrittore. Si poteva mangiare sulla veranda guardando il golfo, che sembrava una veduta di cartolina ed era proprio quello del “Vecchio e il mare”. Il Pilar esiste ancora, è attraccato nel giardino della Finca Vigia, la casa cubana prediletta dallo scrittore, il fasciame risplende al sole perfettamente lucidato e, dopo un po’ che la si guarda ti coglie la stessa tristezza, che provi allo zoo quando guardi un leone in gabbia.
Gregorio era un vecchietto magro e gentile, di poche parole. Rispondeva volentieri alle domande su Mister Papa, poi di colpo si zittiva. Un silenzio di cui non si capiva l’esatta natura. Se fosse generato dal meccanismo della memoria, che s’inceppa o da una specie d’imbarazzo (il parlatore per eccellenza era Ernest, Gregorio badava alla rotta). Allora, nel silenzio, Gregorio si alzava o faceva un cenno invitando i visitatori a servirsi dei grandi album, che stavano su un mobiletto alla sua destra. Quando li si apriva, ci si accorgeva che raccoglievano le firme e una frase, un pensiero delle centinaia di persone, entrate in quella casa negli anni. Altri album, invece, contengono, come facevano le ragazze di una volta, ritagli di articoli su Ernest e Gregorio ai tempi della loro splendida giovinezza. Gregorio giurò e mantenne fedeltà fino all’ultimo. E il Pilar, lo yacht che Tu, amato Ernest, ti facesti costruire in America con la stessa cura maniacale, che di solito riservavi alla scrittura dei tuoi libri, è sempre pronto per il mare! Che ne dici, salpiamo ancora Mister Papa? Adorerei veleggiare con TE, tra le onde del placido Pacifico e dentro la tua immensa genialità narrativa!! Vostra Elena P.
Bello il pezzo, e interessante.
Per favore, mi potresti precisare dove e quando Papa ha definito la morte una sgualdrina?
Mi serve per un breve saggio che ti manderò, se mi dai l’indirizzo.
Grazie sin d’ora, e cordiali saluti.
Giulio C. Testa