Il 28 marzo 1941, Virginia Woolf esce dalla sua casa di campagna nel Sussex e, giunta sulla riva del piccolo fiume che scorre lìvicino, deposita cappello e bastone da passeggio, entra nell’acqua e si lascia affogare, quietamente. C’è chi sostiene che, per non lasciare nulla al caso, avesse riempito le tasche di sassi. Questa fine, studiata si direbbe con una certa cura per i particolari, non può venire brutalmente archiviata, come frutto di un’ennesima crisi depressiva, anche se è vero che fin dall’adolescenza la Woolf aveva subito ricorrenti crisi nervose e che la guerra, con la sua lunga sequenza d’incursioni e distruzioni, può aver contribuito alla sua decisione di abbandonare per sempre la realtà .
Virginia nacque il 26 gennaio del 1882, a Londra. Suo padre, Lesile Stephen, era un uomo di lettere, noto alla migliore società londinese dell’età vittoriana. Aveva sposato in prime nozze una figlia di Thackeray, in seconde la madre di Virginia, una Johnson di “Little Holland House”, salotto letterario un pò frivolo ma in grande auge alla metà dell’Ottocento. Lesile Stephen era un tipico prodotto di Cambridge, appartenente all’agguerrita minoranza agnostica e darwiniana, che tuttavia non si sottraeva a certe convenzioni del suo tempo quali l’immutabilità dei rigidi principi educativi e l’indiscussa fede nella superiorità maschile. Rimasto vedovo nel 1895, aveva assunto in proprio la “gestione” dell’istruzione delle figlie, lasciando che i maschi seguissero conformemente alla tradizione gli studi presso la “Alma Mater Cantabrigia”.
La tredicenne Virginia e la sorella sedicenne Vanessa ricevettero così un’educazione vasta ed eclettica, ma nello stesso tempo dovettero subire tutto il peso dell’autoritaria personalità paterna. Lesile Stephen morì nel 1904, ma nove anni di vita con il padre erano stati sufficienti a mettere a dura prova il carattere indocile e tendenzialmente nevrotico delle due sorelle, costrette per di più negli ultimi anni della lenta e inesorabile malattia paterna al ruolo d’infermiere. Nelle ragazze, intanto, che pure dal padre avevano assorbito una tendenza al raziocinio e un solido sistema di principi estetici classicheggianti, si era andata sviluppando una sensibilità viva ed intuitiva, quasi per un ritorno sentimentale alla figura della madre, morta troppo presto e forse in parte mitizzata per contrapposizione: una madre ce ora rappresentava idealmente una concezione più aperta e libera della vita.
La prima manifestazione della libertà conquistata fu l’abbandono della casa di Hyde Park Gate. Hyde Park Gate era una residenza di prestigio. Bloomsbury, dove ragazze e ragazzi Stephen si trasferirono, no. Bloomsbury, almeno allora, era un’area residenziale della piccola borghesia al confine con i quartieri popolari. Per gli Stephen questo significava un salto notevole, un aperto atto di ribellione. E Bloomsbury non rimase un gesto dimostrativo isolato. Col ritorno da Cambridge di uno dei fratelli, Thoby, Bloomsbury divenne ben presto un punto d’incontro, il più famoso salotto intellettuale dell’epoca, di cui facevano parte, tra gli altri, quello che viene reputato il maggior economista del secolo, John Maynard Keynes, un romanziere della statura di E.M.Forster, uno storico talvolta frivolo ma spesso graffiante come Lytton Strachey e, Roger Fry, il critico d’arte più importante nell’Inghilterra fra le due guerre.
All’origine fu davvero un “salotto letterario”, costituitosi al ritorno di Thoby, che trascinò nella nuova casa gli amici più intimi degli anni di Cambridge. Nonostante la prematura morte di Thoby, stroncato nel 1918 dalla febbri tifoidee, il gruppo continuò a riunirsi per molto tempo e con regolarità ogni giovedì sera. Il programma di Bloomsbury si può sintetizzare nella ricerca di sincerità totale, nell’orrore per la violenza in ogni sua forma, nella liberazione dalle convenzioni sociali e soprattutto nell’affermazione dell’arte, più che altro nei suoi aspetti visuali, come base e, principio di vita, anzi come vita stessa. Un programma insieme d’avanguardia e di retroguardia. Si opponeva infatti in modo estremamente netto agl’ideali vittoriani ancora radicati nel costume dell’epoca, era aperto alle novità artistiche come nessun altro in Inghilterra (si trovò praticamente isolato, per esempio, nella difesa di pittori “follia”come Cèzanne e Picasso), rifiutava il ricorso alla guerra anche per difesa (e per questo incontrò una fortissima impopolarità durante la prima guerra mondiale).
I componenti del gruppo avevano individualmente precise posizioni politiche che andavano da un liberalismo moderato (sul piano economico) a un laburismo perfino impegnato. Conseguente con le proprie idee, Bloomsbury respinse in blocco il fascismo perchè violento, sopraffattore, ma soprattutto stupido e “volgare”. Ä– però da dire che giudicava “volgari” anche l’Ottocento e la Rivoluzione francese. Il Sei Settecento no, ovviamente. Va tenuto presente che lo “spirito di Bloomsbury” era nato negli anni immediatamente precedenti la prima Guerra Mondiale, in un paese come l’Inghilterra, avanzato per molti aspetti, ma solo marginalmente sfiorato dai terremoti ideologici dell’idealismo e del marxismo. Era dunque difficile andare più in là dalle vaghe istanze fabiane, difficile soprattutto sfuggire alle suggestioni di una tradizione aristocratica, esclusiva, ma dopo tutto nient’affatto accademica e sterile.
Bloomsbury conobbe il momento di massimo fervore negli anni dell’immediato dopoguerra. Fino al 1930 circa i singoli componenti del circolo scrissero le loro opere migliori; ma già allora, insensibilmente, i legami si stavano allentando. Se è impossibile parlare di Virginia Woolf senza parlare di Bloomsbury, sarebbe del pari assurdo circoscrivere la sua personalità e la sua opera nell’ambito ristretto dello “spirito di Bloomsbury”, che lei stessa aveva contribuito non poco a consolidare. Al gruppo certamente la Woolf deve lo stimolo a una ricerca linguistica, che è tra le più cospicue delle letterature di lingua inglese. Ma c’è dell’altro: il femminismo tenace maturato per reazione durante l’infanzia vittoriana con l’austero e possessivo genitore, l’invincibile nostalgia per una madre perduta troppo presto e, soprattutto una sensibilità quasi esasperata- ai limiti della nevrosi- che non è difficile ricondurre all’infanzia infelice e all’affetto d’innumerevoli letture su di una natura estremamente ricettiva.
Indubbiamente le opere più mature della scrittrice devono qualcosa al Joyce di Ritratto dell’artista da giovane e di “Ulisse”, oltre che a Proust e magari a Henry James. Il salto tra le opere giovanili “The voyage out (La crociera), “Night and day” e quelle della maturità – soprattutto Mrs Dalloway, To the lighthouse (Gita al faro), “The waves” (Le onde)- è troppo forte per poter escludere sollecitazioni esterne e attribuire tutto a una maturazione interiore autonoma. La tecnica del “flusso di coscienza”, la frantumazione del discorso psicologico, l’inversione dei concetti di tempo e di spazio, sono elementi compositivi in parte mutuati dall’esterno, anche se tanto compiutamente assimilati e fatti propri dalla Woolf da divenire poi tipici del suo stile narrativo. L’epoca più felice, quella di maggior riuscita artistica, è compresa tra il 1925 e il 1927, date che corrispondono all’uscita di “Mrs Dalloway” e di “Gita al faro”. In entrambi i romanzi le figure centrali sono donne.
Donne sotto certi aspetti felici, comunque realizzate, al centro di una cerchia di affetti e di interessi, che sono veri propulsori di vita. Ora, anche per la Woolf vale una regola comune a quasi tutta la narrativa contemporanea: la presenza dell’elemento autobiografico. Ma sarebbe ingiusto e arbitrario cercare d’identificarla nel personaggio principale ed esclusivamente in quello. La signora Dalloway, per la verità, è Virginia Woolf. Almeno come aspirazione, come augurio rivolto a sè stessa; senz’altro come parziale coincidenza nella realtà dei fatti. Eppure l’autrice si ritrae impietosamente anche in altri personaggi e, soprattutto in Septimus Warren Smith, il suicida, l’uomo che la guerra ha allontanato dal mondo.
Le due maggiori realizzazioni della Woolf, così vicine cronologicamente, sembrano rispondere a un’unica esigenza normale, strutturale, perfino logica, la rottura con l’idea tradizionale di tempo. In”Mrs Dalloway” una sola giornata (un giorno del giugno 1923) viene dilatata all’infinito, fino a comprendere l’intera vita della protagonista e degli altri personaggi. Solo le ore scandite dal Big Ben riportano periodicamente il lettore alla realtà del tempo limitato. In “Gita al faro”, al contrario, dieci anni- tanti intercorrono tra l’inizio del romanzo e il momento in cui il faro viene effettivamente raggiunto- sono idealmente concentrati in un solo giorno della vita della signora Ramsay, la donna intorno alla quale tutta la narrazione si snoda e trova la sua verità più profonda. La signora Ramsay, forse la figura chiave dell’opera narrativa di Virginia Woolf, quella che sembrerebbe plausibilmente l’alter-ego ideale della scrittrice, è in realtà una ricostruzione quasi onirica, il frutto di un recupero sentimentale: la signora Ramsay è la madre della Woolf, come l’isola di Skye, nelle Ebridi, è la trasposizione suggestiva della residenza di campagna di St. Ives, sede delle vacanze infantili della famiglia Stephen e, il signor Ramsay- con la sua ostinazione e la smania di raggiungere una inutile meta- è il professor Lesile Stephen.
Rintracciare la vera Virginia in Gita al Faro è invece praticamente impossibile: si disperde in diversi personaggi minori, in quelli che vivendo almeno in parte della luce riflessa della signora Ramsay cercano di penetrarne il fascino segreto. E soprattutto in Lily Briscole, la pittrice. “Gita al faro” è uno dei rarissimi esempi di “prosa d’arte” non stucchevoli o di maniera; inoltre è un prototipo insuperabile di “psicologia d’epoca”: il fato che qui forse nessuno dei personaggi acquisti il rilievo di una signora Dalloway è ampiamente compensato dal gran numero di caratteri psicologici cui viene conferita dignità e attendibilità. Ciò che più sorprende è la robustezza, la solidità quasi architettonica di una struttura narrativa creata tutt’intorno a una prosa frammentaria, impressionistica, estatica, sospesa nell’atmosfera di una verietà fine a se stessa. Tutto è compiutamente concluso, tutto si sostiene in modo armonioso sulla simmetria perfetta della prima e della terza parte legate dall’interludio della seconda, dove il tempo fluisce a un ritmo, che si fa via via concitato e frenetico.
Che cosa rappresenta “Gita al faro” nella parabola umana della Woolf? Di certo, oltre a costituirne il momento lirico più alto, è l’estremo tentativo di difendersi come una fuga a ritroso nel tempo dall’incalzare di una realtà nuova, forse sinistra, obiettivamente detestabile e che sempre più si allontana dagli ideali della scrittrice e di Bloomsbury. A questa realtà tenterà ancora di reagire con “Orlando”, dove, per la prima e forse unica volta- a parte alcuni dei suoi numerosissimi saggii critici- esibirà un’altra delle caratteristiche essenziali del gruppo: lo humour. Ma l mancanza di una chiara vicione storica non le permetterà qui di raggiungere i risultati di un tempo. Con “The waves” (Le onde) arriverà, attraverso una stilizzazione eccessiva, ai confini dell’ermetismo. “Between the acts” del 1941, è pura poesia, ma anche un’opera già fuori del mondo, un autentico congedo.
Bloomsbury era ormai poco più che un ricordo. La morte di Lytton Strachey, prima e, poi quella di Roger Fry, ne avevano provocato la fine. La brutalità, la violenza, la volgarità sembravano trionfare nel mondo. Inoltre la vecchiaia e la decadenza artistica e umana erano concetti troppo lontani dai principi estetici di Bloomsbury, perchè Virginia Woolf potesse accettarli. E così il 28 marzo 1941 Virginia Woolf esce dalla sua casa di campagna nel Sussex e scompare nell’eternità, sempre viva negli animi di chi anela ad una stanza tutta per sè. Vostra Elena P.