Cinquecentotrentanove anni: mezzo millennio, cinque secoli per rimetterne insieme l’eredità visiva, riunendo a Palermo, nella Galleria Regionale della Sicilia di Palazzo Abatellis, dal 14 dicembre 2018 al 10 febbraio 2019, quasi la metà delle opere esistenti di Antonello Da Messina.
La mostra, inserita nel cartellone degli eventi di Palermo Capitale Italiana della Cultura 2018, è organizzata dalla Regione Siciliana – Assessorato regionale dei Beni Culturali e dell’Identità Siciliana, Dipartimento dei Beni culturali e dell’Identità Siciliana, e da MondoMostre – con la Città di Palermo, a cura del professor Giovanni Carlo Federico Villa. Il progetto è inoltre frutto della fattiva collaborazione fra la Regione Siciliana e il Comune di Milano dove l’esposizione verrà presentata – a Palazzo Reale, in collaborazione con MondoMostre Skira – dopo la chiusura della tappa palermitana.
Anche De Antonio Antonello, da Messina, Antonellus Messanensis nell’autografia, ne gioirebbe, per l’eccezionalità unica, sapendo d’altra parte che non si poteva fare prima. Le ragioni: ciò che di lui è sopravvissuto a terremoti, smembramenti, fallimenti di famiglie, naufragi, alluvioni, pareti umide, incuria degli uomini, ignoranza, avidità, insulse paure, dabbenaggini, è disperso in raccolte e musei fra Tirreno e Adriatico, oltre la Manica, al di là dell’Atlantico. Mari noti e ignoti attraversati nei secoli da mercanti e intenditori, antiquari, critici, diplomatici: tutti affascinati – come Enrico Pirajno barone di Mandralisca – dagli occhi, dalle luci, dall’incanto enigmatico del più grande ritrattista del Quattrocento (forse di sempre). Ogni pezzo è giunto a noi fortunosamente, avventurosamente: molti misteriosamente. Riportarne buona parte in Sicilia è stata un’impresa.
Vasari lo raccontava nelle sue celeberrime Vite come colui che aveva ricevuto il segreto della pittura a olio, l’alchimia meravigliosa di Giovanni di Bruggia, un Jan van Eyck ammaliato dalla grazia del giovane siciliano, che quella tecnica di misture e infinite stesure di colore traslucido aveva appreso, e dal Nord portato nel Mediterraneo, facendo risplendere le tavole della sua avviata bottega messinese e poi le ocre, i lapislazzuli, le terre morbidamente riflesse dai cieli veneti. Non era passato un secolo dalla morte del pittore e Vasari costruiva un romanzo: poiché si erano perse tracce e documenti, si orecchiavano storie e leggende; poi, per altri secoli, il silenzio.
Fu un giovane appassionato d’arte, Giovan Battista Cavalcaselle, a ricostruire amorevolmente il primo catalogo del Messinese. Seguì un formidabile erudito messinese, Gaetano La Corte Cailler, che trovò e trascrisse documenti notarili che testimoniavano gli eventi minuti della famiglia del pittore: il testamento della nonna, il ritorno in brigantino dalla Calabria della famigliola del pittore, la dote della figlia; il testamento infine di Antonello, datato febbraio 1479.
Altro di lui non c’era: un’alluvione aveva disperso le ossa in un antico cimitero, più terremoti avevano distrutto prove documentarie a Noto e in altri paesi siciliani. L’antica Messina era già stata distrutta e poi ricostruita nel 1783. Definitivamente alle ore 5,21 del lunedì 28 dicembre 1908: un terremoto del 10° e ultimo grado Mercalli, poi il maremoto. Di Messina non resta nulla: e nulla dell’ancona schizzata da Cavalcaselle, nulla dell’archivio con i documenti trascritti da La Corte Cailler. Salvo questi referti, oggi nulla di nulla sapremmo del più grande e ammirato pittore siciliano.
Da allora però molto si è potuto riconoscere, ripulire, attribuire: il catalogo da fantastico si è fatto scientifico, le ricerche continuano, le attribuzioni certe si susseguono. Iniziano Lionello e poi il padre Adolfo Venturi, Bernard Berenson dà contributi fondanti dopo parziali incertezze. Roberto Longhi già nel 1914 ricolloca Antonello a fianco dei veneziani, e segnatamente di Bellini, facendone l’anello di congiunzione creativa fra i ponentini, gli amati fiamminghi, e la grande stagione veneziana, mediata appunto dall’isolata riflessione sulla prospettiva e la morbidezza della luce centroitaliana, i volumi di Piero della Francesca.
Fra questi ritrovamenti saranno in mostra una Crocifissione che Voll nel 1902 suggerisce di Antonello, parte della collezione del barone Samuel von Brukenthal a Hermannstadt. Dagli Uffizi arriverà l’importantissimo trittico con la Madonna con Bambino, il San Giovanni Battista acquistati dall’allora Ministro dei Beni Culturali Antonio Paolucci nel 1996 e il San Benedetto di straordinaria qualità pittorica che la Regione Lombardia acquista tramite Finarte nel 1995, oggi in deposito nel museo fiorentino.
Dalla Pinacoteca Malaspina di Pavia è in arrivo il ritratto di giovane gentiluomo (a lungo considerato il suo vero volto) trafugato dal museo nella notte fra il 10 e l’11 maggio 1970 e recuperato sette anni dopo dal nucleo di Tutela Patrimonio Culturale dell’Arma dei Carabinieri. E che dire dell’affascinante storia del Barone di Mandralisca che torna da Lipari con il ritratto su tavola di un ignoto il cui beffardo sorriso ha sconvolto la mente della figlia del farmacista nella cui bottega, sportello di mobile, è giunto per vie misteriosissime? Diventa lo splendido romanzo Il sorriso dell’ignoto marinaio primo capolavoro di Vincenzo Consolo.
Guardando al catalogo oggi ricomposto e presentato nei suoi capolavori assoluti a Palazzo Abatellis, nella ricostruzione visiva, attraverso uno spettacolare allestimento che narrerà visivamente viaggi e centralità della Sicilia quattrocentesca, forse Antonello sorriderebbe, beffardamente e ironicamente come uno dei suoi tanti effigiati. Di certo si commuoverebbe. Ma rimarrebbe però anche amaramente stupito dall’azione del Tempo divoratore. Della sublime Annunciazione di Siracusa o dello stupefacente Polittico di San Gregorio, commissionato dalla badessa del Monastero di Santa Maria extra moenia a Messina ad Antonello, nel 1473. Distrutto il monastero, smembrato il polittico, ridipinto poi dal pittore messinese Letterio Subba nel 1842.
E ancora chiederebbe, Antonello, che fu della sua bottega, e del figlio amato, che lo seguiva a Venezia, e dei nipoti: proprio un anno dopo la morte, rimpiangendolo, Jacobello si firma nella dolcissima Madonna con il Bambino della Carrara di Bergamo: “Jacobus Anto.lli filius(s) no. / umani pictoris me fecit”. Sì: il padre era pittore non umano, ma divino. Le sue intuizioni e le sue prove avevano destato l’ammirazione di tutte le corti padane, l’ansia di apprendere delle grandi famiglie veneziane, gli stimoli della bottega in carriera dei Bellini.
Poiché Antonello ha scritto un trattato intero di psicologia. Ferma l’attimo del respiro, le lunghe ciglia ritorte, il fremito di un labbro, la crescita della barba, l’incertezza di uno sguardo. Il nostro secolo ha adorato i ritratti di Antonello: la pittura italiana si è riconosciuta tutta in quegli sguardi, ci siamo tutti identificati nella concretezza di un pittore che ha dato forza e carattere al volto dell’Italiano, alla femminilità virtuosa e sensuale, alla scontrosità e alle forme della donna Italiana.
La mostra di Palermo tutto questo racconta, in un allestimento sviluppato cronologicamente seguendo l’evoluzione e le novità dell’artista, aperto dall’Annunciata nell’allestimento per lei immaginato da un maestro del Novecento, Carlo Scarpa. Accompagnano il visitatore ad una piena fruizione dell’esposizione una didattica concepita a svelare, opera per opera, l’arte di Antonello collocandola nel contesto culturale e sociale del Mediterraneo, evidenziando la centralità della Sicilia, e un’audioguida ove il curatore guida lo spettatore alla scoperta delle novità artistiche e tecniche della sublime arte del maestro messinese.
Federica Mariani
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Simonetta Trovato
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