Intervista a Helmuth Köcher, WineHunter e patron di Merano WineFestival. Helmuth Köcher, lei è anche conosciuto come The WineHunter e patron di Merano WineFestival, ormai storica manifestazione e punto di riferimento per gli eventi wine&food di eccellenza. Per lei è fortissimo il legame con la sua terra, la cui natura l’ha ispirata nell’ideazione dei suoi progetti. Ci vuole spiegare come?
La mia famiglia si è insediata in Alto Adige oltre 150 anni fa e io sono nato a Merano. Mio nonno proveniva da una famiglia di maestri tessili della Boemia e mia nonna invece da una famiglia di viticoltori della Wachau dell’Austria. Queste due anime sicuramente mi hanno influenzato e mi hanno creato radici e fondamenta qui. Sono innamorato della mia terra e della sua natura. Vivere in Alto Adige, in particolare a Merano, mi ispira soprattutto grazie alle montagne e alla purezza della natura. Camminare in montagna, toccarne le rocce, mi riporta alle origini della natura e ispira la mia fantasia. Da questo connubio nasce la mia passione per gli aromi e i sapori, la passione per la storia e la cultura, per la tradizione e l’origine. Talvolta mi ritrovo vicino ad una cascata che scaturisce idee e ispirazioni. Le mie profonde radici in Alto Adige e la convinzione di vivere in un piccolo paradiso mi donano la possibilità di vedere l’essenziale, quello che è invisibile ma tocca il cuore.
Qualità ed eccellenza dei prodotti sono sicuramente tratti distintivi di Merano WineFestival, ma cosa sono per lei veramente “qualità” ed “eccellenza” oggi?
Quando ho iniziato con Merano WineFestival nel 1992 si iniziava a parlare di qualità, mentre la parola eccellenza era allo stato embrionale, perché non c’era la ricercatezza che c’è oggi. Il mercato della viticoltura non aveva a disposizione la tecnologia attuale e dopo 25 anni c’è stato un tale avanzamento, che produrre un prodotto di qualità non è più così difficile. La parola qualità diventa però difficile da interpretare e da usare nella comunicazione, così come la parola eccellenza: basta vedere quante volte questi termini vengono sfruttati, comparendo nelle pubblicità dei vari prodotti. Va fatta quindi una distinzione perché per me qualità, soprattutto nel segmento che riguarda il vino, è comunque da considerare a livello di emozione.
Dopo oltre trent’anni di esperienza nel mondo del vino, quale secondo lei il fil rouge che dovrebbe unire passato, presente e futuro di questo affascinante mondo?
Sicuramente il fil rouge è la storia del vino, che ci racconta e ci dà la possibilità di assaggiare il DNA di un prodotto che è l’uva e di conseguenza la caratteristica di un territorio che diventa inconfondibile. Troviamo quindi rappresentato il passato, con i suoi 9000 anni di storia, ma anche il presente della viticoltura che è in continua evoluzione sia per quanto riguarda la cura dei vigneti che le varie fasi di produzione in cantina. Infine il futuro, che vuole coniugare storia, tradizione e cultura del territorio includendo il percorso di un’azienda che poi diventa una garanzia di fiducia per il consumatore che va ad acquistare il prodotto finale. Quando assaggio un vino o un prodotto deve esserci il valore emotivo e oltre a questo l’approccio con un’eccellenza deve darmi l’impressione di immergermi nel prodotto sia che si tratti di un vino, di un panettone o di un cioccolato. Quando la gente mi chiede come faccio a sapere se una determinata cosa è un prodotto qualitativamente buono o meno, io sono del parere che anche il fattore personale sia molto influente e che ognuno di noi sappia cosa piace o non piace perché possiede il valore emotivo che naturalmente anche i degustatori hanno.
L’Italia è una terra estremamente variegata in cui tradizione e innovazione si incontrano continuamente con risultati unici e spesso divenuti famosi in tutto il mondo. Quale invece secondo lei un prodotto meno conosciuto ma dalle grandi potenzialità che ha scoperto in quest’ultimo anno? E quale la regione d’Italia con più potenzialità ancora nascoste?
Per quanto riguarda i prodotti vitivinicoli, l’Italia negli ultimi dieci anni ha riscoperto il territorio e le sue varietà autoctone; si parla di oltre 1000 varietà all’interno delle quali ogni regione ha una sua chicca e qualcosa di particolare. Ultimamente la mia attenzione è stata richiamata dai vitigni resistenti alle malattie fungine, i cosiddetti PIWI, come il Solaris o il Souvigner Gris che non sono particolarmente conosciuti ma il cui prodotto è notevole anche se ha bisogno ancora di un po’ di tempo per essere comunicato. Per quanto riguarda la regione d’Italia che ha più potenzialità nascoste ma che sta emergendo, questa è sicuramente la Puglia. Oltre alla sua storia, questa regione ha dei vitigni particolari come il Primitivo e il Negroamaro che fino a pochi anni fa erano utilizzati come vino per le grosse quantità e ora invece hanno visto il loro potenziale fortemente rivalutato e promettono bene per il futuro.
Ogni calice di vino e ogni prodotto gastronomico proposto in degustazione durante Merano WineFestival racchiude in sé una storia di eccellenza. Quanto è importante per lei la condivisione di queste storie con i visitatori?
Lo ritengo molto importante perché il vino ci racconta non solo la storia di un territorio, ma anche di un produttore. L’etichetta di un vino racconta il percorso che il produttore stesso ha fatto e con questa si vuole comunicare da una parte la filosofia che c’è dietro e dall’altra un’eventuale storia di famiglia. Quando si afferma che nel calice di vino troviamo anche l’anima del produttore, lo ritengo in parte vero. Ogni produttore cerca di dare la sua impronta al vino oltre a quella che viene conferita dal territorio, per cercare di trasferire il vissuto, il passato e la storia della famiglia stessa, soprattutto nel caso di aziende che sono alla ottava o decima generazione di viticoltori e vogliono valorizzare il lavoro dei propri padri e nonni. A questo punto la comunicazione è ampia perché racchiude la storia di un territorio, di una famiglia e di un vitigno. Faccio l’esempio del Pinot Nero in Alto Adige: il tutto risale al 1835 quando un arciduca portò la vite in questo terreno; ecco che dobbiamo partire da lì per arrivare ai giorni d’oggi in cui il Pinot Nero è considerato il miglior vino rosso dell’Alto Adige per eccellenza.
Per lei che è di natura un precursore, quali sono le sue prossime idee da realizzare nel campo della formazione e dell’innovazione legate al mondo del vino?
Sicuramente bisognerà puntare sulle nuove tecnologie di comunicazione come la realtà virtuale e la realtà aumentata cercando di formare persone che siano non solo interessate tecnicamente alla tecnologia, ma anche appassionate al tema del vino.
In una recente conferenza stampa ha annunciato l’idea di creare una fondazione legata all’attività del WineHunter. Ci vuole spiegare meglio di che cosa si tratta e quali le finalità che intende perseguire attraverso questa istituzione?
La volontà è quella di far diventare il WineHunter il primo riferimento di benchmark dell’alta qualità sia di vino che di prodotti tipici made in Italy. In Italia oltre a più di 15 guide e innumerevoli portali dedicati al vino e alle figure dei critici vi è l’assoluta necessità di creare una referenza cappello che diventi un riferimento importante a livello nazionale e internazionale. Per dare la massima credibilità e anche imparzialità a The WineHutner Award è necessario creare una fondazione che ne sia garante. Faccio il riferimento ad altri premi come per esempio il premio Nobel oppure l’Oscar. Penso ad una fondazione con soci che rappresentano tutte le associazioni di categoria e tutti i critici del vino, un garante dell’alta qualità sia per il mercato nazionale che per quello internazionale.
C’è qualche esempio a cui si è ispirato nel suo passato? E attualmente, qualcosa che la ispira in vista del futuro?
Negli ultimi 30 anni ho visto crescere soprattutto la qualità ma anche il marketing e il posizionamento dei vini sui mercati internazionali. Ho cercato anche di analizzare i posizionamenti dei vini italiani sui vari mercati internazionali e la loro competitività nei confronti di altre nazionali come ad esempio la Francia. Quello che da sempre mi ha ispirato è lo sviluppo del valore dei vini e dei prezzi di mercato, sia quelli da collezione di annate vecchie che quelli di annate correnti. L’interazione con il mercato finanziario è un perno e un riferimento importante per posizionare e qualificare vini anche ad alti livelli di prezzo.
Per la Francia lo sviluppo di un stock exchange come il Liv-ex, all’interno del quale viene dato il riferimento ai 100 migliori vini del mondo di ogni annata, è diventato fondamentale soprattutto per la vendita e il posizionamento dei vini sui mercati asiatici. Tra i 100 migliori vini l’Italia ogni anno ha un massimo di 3 – 5 vini, mentre la Francia ha oltre il 70 %. Questa disparità continua a dare più referenze al vino francese. Per questo motivo ritengo l’assoluta necessità di creare uno stock exchange solo per vini italiani. Ogni anno potrebbero essere valutati i migliori 100 vini con il cappello del WineHunter che all’interno di un algoritmo tenga conto anche delle valutazioni delle maggiori guide italiane ed estere. Il vino italiano in questa maniera otterrebbe maggiore attenzione e sicuramente anche maggiore richiesta. La conseguenza potrebbe inoltre essere quella che tra i 100 migliori vini del Liv-ex l’Italia iniziasse ad essere considerata alla pari con la Francia.
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