Il posto di Jan van der Meer, al secolo Jan Vermeer (Delft 1635-1675), nella storia dell’arte ha dato luogo a tesi diverse, tra le quali, certune hanno sminuito il suo ruolo, non vedendo in lui che un pittore di genere, un realista, o ancora, un ceramista, che impiegava colori di maiolica per i suoi personaggi, come per gli oggetti. Ma simili teorie travisano la vera natura di un artista straordinario. Che svolga soggetti familiari, ritratti, paesaggi, o anche come ai suoi esordi, temi mitologici o religiosi, egli ha apportato un elemento, del tutto nuovo, nella pittura dei Paesi Nordici: la rivelazione dell’idea platonica della pittura in sè.
Egli è partito dal principio che la luce foggia gli esseri e le cose; essa aiuta a fissare i loro tratti comuni e, si mescola al colore, per creare delle forme. Questa concezione della pittura, che nessuno fino ad allora aveva formulato nell’arte figurativa di matrice europea, ebbene lo catapulta tra i grandi di tutti i tempi, lo trasforma in una sorta di “anti-Tiziano” della pittura olandese. Probabilmente il suo più intimo messaggio artistico non ci è ancora del tutto chiaro; ma, sopra ogni cosa, sembra più adeguato e pertinente proseguire l’indagine nel rapporto simbiotico che Vermeer coltivava con la Luce naturale, nella sua raffinatissima sensibilità di luminista e colorista e, nell’assoluto rigore delle sue calme volumetrie. Da molti considerato, sommariamente, quasi un “AntiCaravaggio” del Nord, in realtà entrambi sono vicinissimi, muovono dallo stesso spirito ispirativo, ma sono figli di una generazione diversa e, quindi, di esigenze espressive differenti: nel Merisi, l’anima tormentata lo spinge a custodire il Sole più intenso, il raggio più potente e, a “ricrearlo” con effetti-si direbbe oggi cinematografici- negli interni con forza, irruenza e nitidezza eccellenti; in Vermeer l’anima ingenua trasfigura la realtà in atmosfere di ricordi dall’infanzia, fa filtrare la Luce in maniera naturale quasi come se le pareti, gli ostacoli non esistessero: tutto viene invaso da una calma da sogno, da un’immobilità completa, da una chiarezza inoffensiva e placida.
In Vermeer la Luce non è in alcun modo artificiale: è precisa, normale, come in natura, così come lo potrebbe desiderare un fisico scrupoloso. Il raggio che entra da una parte trapassa lo spazio fino all’altra parte: sembra che la luce provenga dal dipinto stesso e, gli spettatori ingenui si figurano volentieri, che la luce passi fra la tela e la cornice. Si racconta, nell’aneddotica artistica che un tale, entrando in casa del signor Double, dov’era esposto sul cavalletto il “Soldato con la ragazza che ride”, andò dietro la tela per vedere da dove provenisse il meraviglioso splendore della finestra aperta (perciò le cornici nere vanno benissimo alle tele di Vermeer). A tale precisione della luce, Vermeer deve anche l’armonia dei suoi colori: nelle sue tele come nella natura i colori all’apparenza incongruenti, per esempio il giallo e l’azzurro, i quali gli sono particolarmente cari, non sono discordi; egli unisce toni estremamente lontani, passando da quelli più teneri e sommessi all’esaltazione più potente. Lo splendore, l’energia, la finezza, la varietà , l’imprevisto, la bizzarria, un non so che di raro e di seducente: egli possiede tutte queste qualità dei più audaci coloristi, per i quali la luce diventa un’inesauribile maga. Per Caravaggio la Luce è divina, sciamanica, sublime lama che squarcia ed innalza a Dio; per Vermeer la Luce è terrena, materica, naturale, spontanea irradiazione dalla e della Natura, che fa pulsare il mondo di vita.
La sorte di Vermeer è tra le più stupefacenti, non tanto per la sua tarda comparsa nel campo della fama in epoca ottocentesca, quanto per la luce di gloria definitiva, che gli è venuta, dall’elogio dello scrittore Marcel Proust, l’opera del pittore olandese non aveva suscitato molto clamore. Anche come uomo, risulta straordinario che si fosse ingegnato a non lasciare di sè alle cronache altra traccia, salvo quella derivata dal proseguimento, con semplicità, delle peripezie di “una vita di buon padre di famiglia e di rispettabile borghese di Delft. Il fatto più saliente accadutogli fu d’esser stato scelto dai suoi colleghi della gilda, ad esercitare durante un anno le funzioni di decano. C’è chi pretende che fosse cattolico e, in quegli anni, poteva in Olanda non essere sempre facile tirare avanti, con tranquillità , a chi lo fosse; ma non trapela assolutamente dalla sua pittura né dalla sua biografia che, problemi religiosi gli avessero recato disturbo e nemmeno inquietudine.
Ma la sua pittura si manifesta come insolita ai suoi tempi e prima, insolita nei Paesi Bassi e, anche altrove. Dei pittori che in Europa lo precedettero o furono suoi contemporanei, solo un dipinto gli si può avvicinare. Si tratta della Madonna col Bambino di Piero della Francesca ad Urbino, come ben segnala nei suoi studi l’infallibile Roberto Longhi. L’impianto delle figure di Piero, in quel dipinto come altrove sempre, è oltremodo compatto e saldo e, in ciascuna, nella concretezza del volume corporale, domina la maestà che le fa più alte della loro condizione di persone umane. A destra di chi guardi, da una porta aperta, sono intraviste, in un’altra stanza, due finestre accanto, illuminate insieme, la cui luce, sulla parete dirimpetto riflessa, adagio, nel riflesso appare fettina di luce con la stessa virtù dell’ombra, la virtù d’essere d’una labilità inverosimile. Prima che arrivi la labile verticalità, il manto scuro sulla spalla destra della Madonna, la recide e la nasconde. In quel dipinto di Piero, si scorge persino, all’estremità del lato opposto della stanza principale, al lato sinistro, in disparte, al di sopra della testa di uno dei due angeli, su una scansia, un canestro ricoperto da un panno. Sopra dovrebbero esserci, quasi invisibile, una seconda scansia.
Inoltre i rapporti delle tonalità sono ottenuti ricorrendo a tinte chiare, come se il vigore netto dell’espressione non potesse concederselo, se non a patto e a furia d’essersi dato continuo addestramento della sensibilità . Ne risulta un ambiente chiuso, d’un raccoglimento al colmo del silenzio. Tutti elementi che Vermeer non dimenticherà . In Vermeer le figure non hanno né pretendono di avere maestà . Sono persone che per abitudine non escono da quei limiti prefissi a un vivere calmo e sereno e, non desiderano arrivare ad eleggersi quei limiti ambiti, da chi sia molto semplice in tutto e, lo sia anche nel sentire e nell’immaginare. Ciò non toglie nulla alla profondità , può dare anzi all’espressione una giusta profondità, la giusta misura della profondità , quella misura che è indispensabile aiuto nel raggiungere di un vero, che non superi le misure della persona umana, che anzi si trovi, nei limiti stessi della persona umana, presente, ad affermare l’indeterminatezza della poesia, persuadendola ad emergere, è un lato da esaminare meglio, quello dal quale Vermeer vede e attesta, tra l’imperversare del verismo degli altri “piccoli maestri” olandesi, la negazione di quel loro verismo e, d’ogni altro verismo, rimanendo fedele al vero.
Un’osservazione mi viene in questo momento in mente e, la noto subito in margine. A volte, i visi delle figure di Vermeer quasi s’imbambolano, ma dev’essere successo in seguito allo scempio compiuto da restauratori, privi di ogni riguardo verso inermi velature. Subito Vermeer appare come un antagonista dei “piccoli maestri”. Un antagonista forse inconsapevole. Esporre visibili alla gente che passava, dai vetri dell’ampia finestra che dava sulla strada, stoviglie di rame lustro appese alle pareti, coperte di cuoi cordovani, sedili accuratamente scolpiti nelle loro parti di legno raro, mobili e ogni altro oggetto, specie se esotico o prezioso, era uso in Olanda, rimasto vivo, per ostentazione del proprio benessere. Compito del “piccolo maestro” era di dipingere, come se fosse un passante, quell’ambiente chiuso solo dai vetri, eppure impenetrabile se non dagli occhi, a chi non fosse della stessa casta e della medesima setta. Il “piccolo maestro” dipingeva con una meticolosità e un tormento da bigotto, con non altro in testa se non di fare somigliante, di fare meglio di come farebbe oggi la moderna fotografia digitale, ma con la speranza di non fare più di quanto avrebbe più tardi fatto la fotografia su pellicola.
Anche se dei “piccoli maestri” Vermeer adotta lo scopo principale che è quello di dedicarsi agl’interni, alla cosiddetta pittura di genere, in effetti cerca altro. Lo definiscono il pittore della Luce: dicono che cercasse la luce. Difatti cercava la luce, non la possedeva come il “demone creativo” del Caravaggio. Si veda come essa vibri, per lui, dai vetri, com’essa muova l’ombra, ombra della luce, ombra quasi impalpabile di ciglia mentre lo sguardo amato si socchiude, sguardo quasi, nel suo protrarsi nella memoria e nel desiderio, imitasse il segno dell’ombra. Bisogna però stare attenti nel parlare di Luce. Forse, cercando la luce, Vermeer trovava altro, forse la meraviglia incantevole della sua pittura è nell’avere trovato altro. Tanti pittori hanno cercato di fermare la luce: uno solo ci è riuscito, ma lo ha fatto rielaborando la Luce, ridando forma ad una Luce che da allora si chiamerà Caravaggesca. Il Merisi impone al corso luminoso di sconquassare e di ridurre in pezzetti il vero, per servirsi poi di quei pezzi luminosi, come pazze rabbia e gioia di sensi ed, erigere un’architettura di una verità diversa, per l’appunto Caravaggesca.
Rembrandt dà ad intendere d’avere ottenuto il privilegio di disporre a suo talento della pietra filosofale, cerca d’invocare una luce d’alchimia, colta quando il Sole colpisce vetri e mattoni delle case con una stanchezza inverosimile, eppure in segreto oltre misura brutale: il piombo allora si squaglia, l’oro scoppia e divora come un lebbra. Poussin e Corot hanno perpetuato in diverso modo, ma l’uno e l’altro attoniti e rapiti, l’esatta restituzione, in dipinti, dei boschi albani popolosi di fauni e di ninfe, coperti da un cielo d’un azzurro illibato, che s’espande e va diffondendo, sotto, la sua luce giusta di paradiso non ancora perduto. Cèzanne considerava la Luce in modo drammatico. Ha cercato di affermare, a dispetto e con rispetto della luce, il volume degli oggetti, gli sviluppi volumetrici che l’intelletto e la fantasia d’un pittore possono farsi suggerire dagli oggetti.
Seurat costruisce il poderoso volume di una figura puramente componendo la luce, che avvolge la figura, in minuscoli punti di colori complementari dell’iride. In verità , salvo Seurat, tutti i pittori che abbiamo citato, trovavano altro. Potremmo andare avanti sino alla consumazione dei secoli in quest’elenco di pittori, che si siano avvalsi delle risorse ad essi offerte dalla luce. In fondo in fondo, senza la luce non ci sarebbero oggetti, non essendo stato possibile identificarli e nominarli prima che una persona li avesse visti, visti con i suoi occhi. Vermeer più che la luce ha trovato altro, ha trovato il colore, un colore vero, dato nella sua assolutezza di colore. Se in Vermeer la luce conta, è perchè anche la luce ha un colore, il colore di luce e, quel colore lo vede come un colore per se stesso, come luce e, ne vede e, ne isola, anche, se è vista, l’ombra, vincolo indissolubile della luce.
Nemmeno i volumi contano per lui, intrisi di luce, macerati dalla luce, balzati in avanti, protesi ventri gravidi, con tanto pudore, con tanta ansia, con tanto dolce trepidare da lui ritratti. Conta il colore. Sono dunque fantasmi quelle persone, la moglie, o una figlia, o lui stesso, quelle persone, la moglie, o una figlia, o lui stesso, quelle persone familiari ritratte, quegli oggetti consueti, evocati? E’ possibile. Il vero resta nella giusta sua misura, pure scappandone e divenendo metafisico, facendosi idea, forma immutabile, per non divenire alla fine se non puro colore, o meglio, accorta, misurata distribuzione di puri colori, l’uno nell’altro compenetrandosi, l’uno dall’altro isolandosi. L’equilibrio, l’armonia sono costanti in Vermeer, sono raggiunte senza alcuna fatica, senza alcuna stanchezza, d’acchito, spontaneamente, per semplice, immediata congiunzione dell’ispirazione alla forma, d’un lampo immedesimata nella forma. E qui risiede la sua peculiare grandezza!
Si pensi, ad esempio, alla celebre opera “La Merlettaia”, che appare china sul suo lavoro. Il suo è uno sguardo che si concentra, è assenza da tutto il rimanente che non sia quel lavoro, quel moto di dita che i fili annodano in trame leggiadre. Dita e sguardo non cesseranno mai di muoversi, di quel loro moto che si muove fermo per sempre. L’idea dell’infinità , d’una familiarità con il silenzio, solida, indissolubile e infrangibile; l’idea d’un’ esistenza immutabilmente, felicemente quotidiana, semplicemente semplice; l’idea di una solitudine tutta sola e, tutto il resto muto; questa è l’idea. Può darsi che non sia della stessa proporzione, alla sua altezza, alla stessa profondità , allo stesso livello, dello stesso segreto della pittura che la manifesta? No, nessuno lo potrebbe dire, nessuno! Alcuni esempi: “Donna che scrive una lettera”. Che cosa vorrà mai raccontare? La fronte spaziosa s’è volta un po’ più di lato, china verso gli occhi riflessivi. Cerca di connettere. Le si affollano in mente, in troppi, i pensieri. Le dita si affusolano intanto, mostrando la grazia delle mani carezzevoli che posano, un pochino grassottelle, una in abbandono sul foglio, l’altra trattenendo la penna impaziente di tornare a vergare care frasi.
Come si riuscirebbe a descrivere meglio di così l’idea della assenza? Non un’idea angosciosa. Un’idea d’infinita tenerezza. Con appena un soffio di malinconia. E’ la ricchezza della solitudine d’una ragazza deliziosa, d’una giovine donna che guarda senza alcuna fissità né fissazione; ma con un dolce slancio salito dall’anima, l’assente persona, invocandola, senza disturbare il silenzio, accrescendolo all’infinito. Forma e contenuto hanno mai assimilato fondendosi, una maggiore precisione di metro umano? Se dovessi ricapitolare ciò che, alla buona, sino qui ho detto di Vermeer, direi che potremmo avere già qualche nozione sui motivi che lo separano dai “piccoli maestri”, suo contemporanei; sull’importanza che la luce ha per lui, considerandola a sè, come essa stessa un colore e, reputandola, lo provano i suoi dipinti, anima di ogni colore; sull’equilibrio e l’immedesimazione che sempre raggiunge nei suoi dipinti, tra arte, idea, natura, rispettando nel vedere, sentire e fantasticare, le persone e gli oggetti secondo le naturali apparenze del loro vero.
Marcel Proust andava pazzo per lo stile vermeeriano, vi basti leggere l’eloquenza di questi suoi appunti in merito: “Avete visto certi quadri di Vermeer, vi rendete conto che sono i frammenti splendenti d’un medesimo mondo, che è sempre, quale sia il genio che li ha rimessi al mondo, la stessa tavola, lo stesso tappeto, al stessa donna, la stessa nuova e unica bellezza, enigma, a quell’epoca dove nulla le somiglia né la spiega, se non si cerchi di apparentarla ricorrendo ai soggetti, ma di svincolarne invece l’effetto particolare che il colore produce”. Il sommo pittore Vermeer era scoperto, il precursore, quello che stava aspettando la pittura informale, quello che doveva avere pazienza sino alla seconda metà del Novecento per essere capito e seguito dai pittori. Come avrà fatto Proust ad avere, in questo caso, intuizione e maggior gusto, non dico solo dei suoi contemporanei, ma anche di quasi tutti noi che viviamo quasi un secolo dopo la sua morte?
Guardate “La viottola” o “La Stradina”, per meglio indicare con termine moderno. Quella sua fattura piatta, con le lastre che si sovrappongono di granato e grigio ed, è solo nella diversità tonale l’indicazione della loro ora, il loro stato, l’apparenza, fattasi immutabile per mano dell’arte, in quel momento effimero di quel giorno. Bellezza nuova e terribile d’una casa. Nel “Concerto”c’è l’apparizione del giallo. La fanciulla è alla spinetta. Il giallo lo modulano le pieghe del vestito. C’è il dorso di cuoio d’una sedia, rossastro cuoio, è un’”isolata assolutezza di colore come nel famoso giallo, brandello di muro della “Veduta di Delft”. Per l’assolutezza del colore, si osservi anche l’andirivieni, l’annuvolarsi, l’abbuiarsi delle lastre bianche e nere del pavimento, nello stesso dipinto. Non dimentichiamoci di citare il giallo, il sulfureo giallo del giaccone della “Donna che scrive una lettera”, dove si tratta di giallo invadente, di prepotenza del giallo. Lo stesso giallo e con lo stesso giaccone si ripete nella ”Donna e la sua servente” e, ancora il medesimo giaccone appare nella “Collana di perle”.
Ci sarebbe da parlare anche dell’azzurro, di svariate intensità , un colore non meno importante del giallo nella tavolozza di Vermeer. E che cosa può dirsi del rosso? Per esempio di quel rosso della “Dama dal cappello rosso”? E’ d’un rosso scarlatto, un rosso sangue, un rosso fuoco. Sono piume, lievi, furenti, piume che s’inquietano e s’agitano al minimo soffio e, quale splendore invade, per loro virtù, il dipinto. Un ventaglio di rossi vivi, un ventaglio di azzurri vivi, un ventaglio di gialli vivi e, quando occorra, nel vivo, insinuazione di grigio o di marrone. Vermeer è tutto qui. L’inventore della pittura più luminosa d’oggi, è tutto qui. Ma mi sembra che quel “qui” sia davvero una vastità , adorati Lettori e Naviganti sulle rotte fantastiche di BeppeBlog!! Alla prossima vastità artistica!! Vostra Elena P.
Jan Vermeer is from my favorites painters:)
Grazie per bello post.