Il 18 Dicembre 2019 esce “Daltonico”, il primo album di Antonio Paone, per l’etichetta Cabezon Records. L’album, interamente strumentale, è composto da cinque composizioni originali, frutto di un lungo percorso di ricerca personale e, come lascia intuire il titolo – attraverso un parallelismo – vuole essere un focus sulla “visione soggettiva e in prospettiva”: ovvero una risposta unica e autentica sulla base di personali esperienze di vita vissuta (e, di conseguenza, di diverse sensazioni percepite).
Antonio Paone nasce nel 1995 ed inizia a studiare musica all’età di 11 anni, approcciandosi fin da subito al mondo delle sei corde. Ha frequentato il corso di Chitarra Jazz al Conservatorio di Mantova diplomandosi a pieni voti e con lode, prosegue a tutt’oggi il suo percorso di studi nel Biennio di II livello in Chitarra Pop/Rock, lavora come musicista e docente di musica.
La caratteristica della musica che ha da sempre maggiormente attirato Antonio Paone è la possibilità di comunicare tramite uno scambio di energie e vibrazioni. Ciò ha comportato una spontanea maturazione nell’approccio alla musica che ha costruito negli anni, inglobando sempre di più la componente compositiva e di arrangiamento, nonché la comprensione delle dinamiche all’interno dei processi musicali (e di riflesso, emotivi) che governano questi scambi così intensi da risultargli quasi tangibili.
Tutto ciò è ricercato attraverso un utilizzo molto sentito e personale di concetti musicali a volte semplici, a volte estremamente complessi (ma mai come freddo sfoggio di conoscenze arzigogolate), puntando – in entrambi i casi – a guidare al meglio l’ascoltatore verso la direzione che la composizione predilige.
“Daltonico” è un album coraggioso, difficilissimo da “etichettare” per genere. Un lavoro dove – per dirla alla Martin Mull – “parlare di musica è come ballare di architettura”. Là dove si insinuano atmosfere con il calore del jazz contemporaneo e del pop come nel brano “Castelli di Sabbia” dove si esplora l’eterogeneità armonica, si possono sentire echi di Jacob Collier, ma anche dei The Beatles con un’esplosione sonora di E-bow e bottleneck da togliere il fiato.
“D.” é l’unico brano dell’album che sfrutta un ensemble composto non esclusivamente da chitarre (ma anche da pianoforte, tastiere, organo, contrabbasso, basso elettrico e batteria). Qui è possibile ritrovare, mano a mano che le sezioni del brano si susseguono – con diverse variazioni armoniche – anche lo spirito hard rock.
L’attenzione per la condotta delle parti in queste composizioni, si palesa molto esplicitamente soprattutto in “Due Voci”: qui due chitarre elettriche dialogano con un andamento contrappuntistico che ha diversi richiami alla musica di Bach e di Chopin (spesso utilizzando, però, armonie e sonorità moderne) elevando quanto più possibile la tessitura sonora finale.
Il disco si conclude con “Rugiada”, un brano per sola chitarra acustica che vuole essere il punto più intimo e delicato del disco, che a tratti ricorda il chitarrismo eclettico di Tommy Emmanuel e il songwriting folk Joni Mitchell.
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