Edmund Wilson detto Bunny, guru delle lettere americane e mitico editor di Hemingway e Fitzgerald, scrisse un saggio sull’origine della cultura del suo Paese intitolato, “Dovuto agli Irochesi”. Ora, un saggio dedicato alle origini della scultura potrebbe, analogamente, essere intitolato “Dovuto agli Africani”. Sottintendendo il debito scontato verso gli antichi egizi, i cicladici e gli etruschi.
E’ l’ennesima conferma che la scultura moderna discenda non dall’antichità classica e dalla forme rinascimentali, ma dalle culture cosiddette “primitive”: conferma tracciata, documentata, dichiarata nella rappresentazione del corpo umano. Rappresentazione che può essere realistica, ma anche simbolica, ipotetica, fatta più di vuoti che di pieni, di luci e di ombre. Anche addirittura mera astrazione. Per quanto, come amava provocatoriamente affermare Picasso, “l’arte astratta non esiste, ma bisogna pur sempre cominciare da qualcosa”. E allora andiamo a cominciare con la nostra carrellata artistica, corredata dall’excursus culturale di riferimento.
Si parta dall’assunto che la situazione della scultura, in Occidente nell’Ottocento,era davvero disperata. Quel che restava della tradizione classico-rinascimentale era ridotto,per definirlo con le parole di Medardo Rosso, a “un cincischio della materia per cercare di ottenere un effetto più simpatico, ma superficiale”. Ridotto, vale a dire, a celebrazioni di lutti bellici o pseudo-trionfi politici. Mentre la scultura ecclesiastica era banalmente ripetitiva e ordinaria.
Ma a quel punto arriva Auguste Rodin e sconvolge ogni modello plastico, riportando la figura umana, non come statua ma come grumo vitale, al centro della creazione artistica. “L’arte non può essere senza la vita” scriveva Rodin. “Una statua che volesse rappresentare la gioia,il dolore, una passione qualsiasi, non riuscirebbe a commuovere, se non fosse in grado, nello stesso tempo, di far vivere gli esseri che evoca. Cosa potrebbe suscitare in noi la gioia o il dolore di un oggetto morto, di un blocco di pietra? L’illusione che la vita sia presente si ottiene dunque nella nostra arte con il modello adatto e con il movimento. Queste due qualità rappresentano la linfa vitale di ogni opera d’arte”. La rivoluzione Rodiniana è in atto, completamente votata al dinamismo pregno di pathos!
Che un’opera d’arte abbia dentro di sé una “linfa vitale”, una sorta di “elan vital”, di vita propria, di motore intrinseco, se non addirittura una carica magica,totemica, molti padri della scultura moderna vanno ad apprenderlo, visitando le collezioni raccolte al Museo dell’uomo parigino dalla Francia, che con gli idoli dei “primitivi” vuole celebrare, anche e soprattutto, i trionfi coloniali, così come fanno gl’inglesi al British Museum. L’interesse manifesto per i moduli linguistici e iconografici dell’arte tribale propriamente detta, dell’Africa Nera e dell’Oceania, ma anche dell’arte pre-colombiana, alimentato tra l’altro dalla fondazione dei maggiori musei etnografici ai quali è legata la scoperta dei primitivismo per molti protagonisti delle avanguardie novecentesche (il Trocadero per Picasso, il Mus fur Volkerkunde di Dresda per il gruppo “Die Brucke”) presuppone una nuova valutazione estetica delle arti primitive (da reperto etnografico o curiosità esotica a modello di spontaneità e immediatezza espressiva) e determina anche un nuovo atteggiamento nei confronti di espressioni naif, come l’arte infantile, quella popolare e quella degli alienati mentali.
Al British e al Louvre si recano in pellegrinaggio i vari Brancusi, Modiglioni e persino Picasso (che sarebbe stato capace, come ha dimostrato, di trarre ispirazione persino da una sella di bicicletta e da un pallone: figuriamoci da un capolavoro dogon o senufo, civiltà antiche dell’Africa centrale). E questa ricerca di un potenziale ancestrale e archetipico, oltre che plastico, della scultura la definisce bene Paul Gauguin quando, a proposito di “Oviri”, il selvaggio, realizzato a Tahiti nel 1891, scriveva: “Nella mia opera sconvolge proprio quel non so che di selvaggio che ci ho messo dentro, quel qualcosa che non si può imitare”.
Partendo invece da tutt’altri presupposti, arrivano a conclusioni diverse artisti di segno totalmente opposto a Gauguin, due padri dell’arte astratta come Lucio Fontana e Fausto Melotti. E’ proprio quest’ultimo, ingegnere laureato e diplomato al Conservatorio, che accanto ad apparizioni filiformi incastona anche nel gesso figure ascetiche, che afferma: “L’arte è uno stato d’animo angelico e geometrico insieme. Essa si rivolge all’intelletto, non ai sensi. Per questo è priva d’importanza la “pennellata” in pittura e in scultura la “modellazione” Non è un gioco di parole: modellazione viene da modello, natura, disordine; modulazione da modulo, canone, ordine.
Il cristallo incanta la natura”. Per l’ingegner Melotti, dunque,quelli che si devono ascoltare, guardando una scultura, non sono i gemiti degli spettri della giungla, ma i contrappunti del pentagramma. A mediare interviene invece un altro padre della scultura italiana Marino Marini, che così esprime la sua poetica: “Nella figura io mi propongo di approfondire nell’insieme sempre più unito, più fermo e pure libero e sciolto, il gioco naturale dei volumi. Ma questa ricerca dei volumi non è il solo proposito dello scultore, il quale non deve mai dimenticare che ciò che commuove di più una scultura è sempre la sua poesia”.
Concetto sostanzialmente condiviso da altri illustri artisti italiani come Arturo Martini, punto di riferimento per un’intera generazione, da Pericle Fazzini a Giacomo Manzù, che nel 1937 afferma:”Lascio il mio spirito libero e tutte le forme del bello e posso così emozionarmi davanti a un’opera greca, di un primitivo come davanti a una cera di Rosso”. O Lancillo, un grandissimo non ancora pienamente valutato, che sul diario annota come la scultura possa essere “un nuovo oggetto naturale che divenga con stratificazioni, solchi, strappi, che sono quelli del nostro essere, che esca come il nostro respiro…E la creta diventa materia “nostra” per gli atti che compiamo su essa e con essa, atti che nascono da una relazione del nostro essere, che crescono dalla furia, dalla dolcezza, dalla disperazione, motivati dal nostro essere vivi, da quello che sentiamo e viviamo”.
La scultura, dunque, come realizzazione fisica, ma anche come luogo metafisico, così come traspere dalle opere di artisti del calibro di Moore, Ernst, Mirò, Giacometti, De Chirico, Calder (che voleva fare sculture come “dei Mondrian che si muovessero”), Arman, Cesar, Nicki de Saint Phalle, gl’immensi Wildt e Bourdelle. Tutti, in un modo o nell’altro, a fare proprie le parole di Hans Arp, che da surrealista sosteneva: “Noi non vogliamo riprodurre, vogliamo produrre. Vogliamo produrre come una pianta che produce un futto e non riprodurre. Vogliamo produrre direttamente e non transitivamente”. Ma il primitivismo non si esaurisce nella parentesi storica tra fine Ottocento e primi decenni del Novecento; anzi diventa pervasivo e dilagante, insinuandosi laddove, all’apparenza, sembra rifiutato e negato in termini ideologici, ovvero tra i graffitisti americani e nella Transavanguardia degli anni Quaranta…Un primitivismo che ha già cambiato pelle, si è fatto più selvaggio, più anarchico, più “art brut” e meno “art primitive”: le tribù urbane, Miei Cari, orchestrano forme e significati di nuovi codici ideogrammatici. Vostra Elena P.