La Venezia di fine Quattrocento viene descritta nelle cronache contemporanee come la più bella e trionfante città del mondo. Grandi rapporti, sia commerciali che artistici, sono tenuti con la Germania e i paesi del Nord, molte sono inoltre le opere “ponentine” presenti nelle collezioni private veneziane. Nel 1495 è attestato il primo viaggio di Albrecht Dürer a Venezia, nel 1496 viene posto in opera, in campo Santi Giovanni e Paolo (San Zanipolo), il “Monumento equestrea Bartolomeo Colleoni”, ideato da Andrea del Verrocchio. L’opera creò moltissima attesa, poiché monumenti di questo tipo non erano stati realizzati in Italia dopo il “Gattamelata” di Donatello a Padova (1447-1453).
Il senso della distanza nella pittura tonale veneziana è creato per passaggi graduali dei toni di colore, poiché i pittori avevano notato che i colori caldi creano una sensazione di avvicinamento, mentre quelli freddi l’effetto opposto. Per gli artisti veneziani fondamentale risulta la lezione di Leonardo da Vinci, appresa dall’opera dei più stretti collaboratori del maestro toscano con i loro soggiorni nella città lagunare: Marco d’Oggiono, Francesco Napoletano e Giovanni Agostino da Lodi. Tra il febbraio e l’aprile del 1500 lo stesso Leonardo vi soggiorna, dopo la fuga da Milano invasa dai Francesi. Primo, fra gli artisti della nuova generazione dei pittori veneti della fine del XV e inizi del XVI, è senza dubbio Giorgione (Castelfranco Veneto, 1477/1478-Venezia 1510). Scarse sono le testimonianze e i documenti relativi all’attività del pittore antecedenti al 1506, data che appare sul retro del dipinto “Ritratto di giovane donna (Laura), oggi al Kunsthistorisches Museum di Vienna.
Tra le prime opere di Giorgione su cui la critica è tutta concorde nell’attribuzione al maestro è la cosiddetta “Pala di Castelfranco” (Madonna col Bambino tra i santi Liberale o Nicasio e Francesco), eseguita per la cappella di San Giorgio nel duomo vecchio di Castelfranco, circoscrivibile tra il 1502 e il 1504. Giorgione qui si è servito del disegno, solo per la realizzazione dell’impianto prospettico-architettonico, per il resto tutto è realizzato con strati di colori sovrapposti; è lo stesso colore che crea le forme, gli spazi e le luci, a seconda dei toni che assume. Alla prospettiva aerea di Leonardo, Giorgione sostituisce una prospettiva cromatica. L’ambiente che l’artista frequenta, quello dei circoli culturali aristocratici, dove si compiono studi antiquari, dove grande è la circolazione dei codici ed edizioni a stampa di manoscritti classici greci e latini, lo porta a realizzare per i propri committenti, opere il cui significato non è ancora del tutto chiaro. Si citano come esempio la celebre “Tempesta” (Venezia, Gallerie dell’Accademia). Nel 1503 Marcantonio Michel descrivendo l’opera vista in casa di Gabriele Vendramin ne ignorava il titolo esatto. In quest’opera trova piena affermazione la “maniera nuova” che il Vasari descriveva come “[…] dipingere solo con i colori essi stessi senz’altro studio di disegnare in carta […]. Oppure il celeberrimo “Ritratto di vecchia” (Venezia Gallerie dell’Accademia), che si ritiene possa essere il ritratto della madre del pittore, come appare nell’inventario del 1569 di casa Vendramin “[…] retrato della Madre de Zorzon de man de Zorzon con suo fornimento depentol […]. In questo ritratto il monito sull’azione distruttiva del tempo sulla bellezza è uno dei topoi delle liriche dei circoli intellettuali contemporanei.
Del 1508 è l’impresa della decorazione esterna del Fondaco dei Tedeschi, di cui rimangono lacerti: “La Nuda” (Venezia Ca’ D’Oro) e “Putti con festoni” (Grand Bretagna, collezione privata); in questo cantiere compare come collaboratore il giovane Tiziano, probabilmente già a bottega da Giorgione dopo l’abbandono della scuola di Giovanni Bellini. La pittura di Giorgione in un breve arco di anni determinò una svolta decisiva del corso della pittura veneta, divenendo punto di riferimento per una generazione di artisti, tra i quali Sebastiano Luciani, detto del Piombo (Venezia 1485- Roma 1547) il quale pur nel tonalismo del maestro inserisce un saldo costruttivismo delle forme architettoniche e umane. Caratteristica che lo farà trovare a proprio agio a Roma, chiamato da Agostino Chigi, nel 1511, per la decorazione della sua villa. Dapprima si accosta a Raffaello negli affreschi delle stanze Vaticane, facendo conoscere al Maestro urbinate un nuovo senso cromatico e luministico, poi, dal 1516, a Michelangelo, col quale stringe un’amicizia che si romperà solo nel 1534. Tiziano Vecellio (Pieve di Cadore, Belluno 1490 ca. – Venezia 1576) nasce artisticamente nella bottega di Giovanni Gobbo, per poi dirigersi verso l’ambito di Giorgione, del quale il cadorino condivideva il tonalismo e il mondo poetico. Il suo temperamento non tarada ad emergere e gli affreschi per la scuola del Santo di Padova (1511) rivelano una personalità incline a una gestione drammatica e spaziata della prospettiva. Il completo distacco dalla lezione giorgionesca avviene con la realizzazione della monumentale “Assunta” (Venezia, Santa Maria gloriosa dei Frari) realizzata tra il 1516 e il 1518, opera di tale portata rivoluzionaria da essere in un primo momento rifiutata dai committenti, i frati francescani.
Nel concepire questa pala a Tiziano non sono certo estranee le esperienze romane di Michelangelo e Raffaello, conosciute tramite la circolazione d’incisioni delle loro opere ad affresco. Tutta la gamma cromatica dei rossi e dei gialli appare in questa grandiosa tavola, la pennellata si presenta densa con sovrapposizioni di colori, senza alcun risparmio. In quest’opera, grande è il senso della teatralità che il cadorino utilizzerà spesso nelle proprie composizioni. Le opere della tarda maturità sono caratterizzate da un grande impiego del colore, steso ad ampie pennellate e spatolature, senza escludere l’uso delle dita per stendere il pigmento, come nell’ “Incoronazione di spine” (Monaco, Alte Pinakothek) dipinta intorno al 1570, ma soprattutto nella “Pietà” (Venezia, Gallerie dell’Accademia) sua ultima opera realizzata in collaborazione con Jacopo Negretti, detto Palma il Giovane. Qui le forme si sfaldano, la gamma cromatica ha abbandonato gli squillanti colori della giovinezza, esistono solo volumi. Probabilmente in quest’ultima fase della pittura di Tiziano si possono riscontrare echi di Tintoretto nel trattamento luministico della superficie pittorica. Temperamento assai diverso è invece quello di Lorenzo Lotto (Venezia, 1480 – Loreto, 1556). La sua attività si svolge lontano da Venezia, prevalentemente in Lombardia, a Roma e nelle Marche, ma soprattutto nei centri minori della provincia. Profondamente religioso, finisce la propria vita come oblato della Santa Casa di Loreto.
Si presume che abbia compiuto il suo tirocinio nella bottega veneziana di Alvise Vivarini, ma è documentato per la prima volta come pittore a Treviso fra il 1503 e il 1506 dove trova protezione nel vescovo Bernardo de’ Rossi, del quale lascia un mirabile ritratto (Napoli, Capodimonte). Nel “San Girolamo penitente” (Parigi, Louvre) è già presente l’impostazione giorgionesco per la prevalenza del dato naturale, ma la forte insistenza del disegno presuppone e conferma l’incontro con il pittore e incisore Albrecht Durer. La personalità di Lotto si rivela appieno nella resa della natura attraverso il fantastico disporsi delle rocce con un rifrangersi della luce in modo fiabesco, dove la piccola figura del santo quasi scompare, non solo per le sue dimensioni ridotte, ma anche per la posa assunta, simile a quella delle rupi alla sue spalle. Anche nelle sacre conversazioni come la “Pala Martinengo”(Bergamo, San Bernardino in Pignolo) del 1521,oppure la tela realizzata nello stesso anno con la “Madonna col Bambino tra i santi Caterina, Agostino, Giovanni Battista, Sebastiano e Antonio abate” (Bergamo, Santo Spirito), pur mantenendo l’impostazione piramidale, tipica per questa tipologia di dipinti, si apre in un movimento scompaginato delle figure dei santi e degli angeli che reggono cortine o ghirlande. L’opera che rispecchia la poetica di Lotto è il ciclo di affreschi dell’oratorio dei conti Suardi a Trescore (Bergamo) con le “Storie di santa Barbara, santa Maria Maddalena e santi Brigida”, realizzate nel 1524. La narrazione dei fatti salienti della vita delle sante è priva di unità temporale e spaziale, lo scenario è unico, gremito di vari ambienti, interni o esterni, dove si svolgono i fatti come i luoghi deputati delle sacre rappresentazioni medioevali.
Lorenzo Lotto tentò invano di cercare fortuna in patria, lasciando due opere di forte suggestione patetica e grande intensità pittorica come la”Gloria di san Nicola” (1529, Venezia, Carmine) e l’ “Elemosina di sant’Antonio” (1542, Venezia, Santi Giovanni e Paolo). Tra le opere della produzione marchigiana vanno citate l’articolata “Annunciazione” (1534-1535, Recanati, Pinacoteca civica) e la sua ultima opera autografa, la “Presentazione al tempio” (1552-1556, Loreto, Santuario della Santa Casa). Due altri protagonisti s’impongono sulla scena della pittura veneziana, la cui produzione si svolge nell’ambito del tardomanierismo: Jacopo Robusti, detto, il Tintoretto (Venezia 1518-1594)e Paolo Caliari, detto il Veronese (Verona 1528- Venezia 1588). Alla pittura di Tintoretto, drammatica, tormentata e inquieta, si oppone quella calma, equilibrata e serena del Veronese. Tintoretto interpreta i dubbi religiosi,l’insicurezza dell’età della controriforma, l’altro la stabilità politica, la prosperità economica, l’indipendenza della Repubblica di Venezia; ambedue portano alle estreme conseguenze il colorismo lagunare: bagliori improvvisi a contrasto con l’ombra, Tintoretto; luminosità diffusa condotta al massimo chiarore, Veronese. Il primo grande capolavoro di Tintoretto è “La liberazione dello schiavo”(Venezia Gallerie dell’Accademia) del 1548 realizzato per la scuola grande di san Marco; la composizione ha un andamento ondeggiante, i colori, desunti dalla tavolozza di Tiziano, sono caldi ma risolti con un uso drammatico della luce.
Che, penetrando da destra, crea nell’ombra del pergolato accesi effetti chiaroscurali e cangianti. Nel successivo telero per la stessa scuola, “Il ritrovamento del corpo di san Marco” (Pinacoteca di Brera, Milano) di una quindicina di anni più tardo, la luce è ancora protagonista assoluta del dipinto, non una luce razionale, ma notturna, mobile, emanata dal santo stesso, una luce che svela e contemporaneamente blocca la forza plastica dei corpi. Tintoretto dipinge velocemente, non si sofferma sul dettaglio, rende l’immediatezza, realizzando scene turbinose. Fra il 1575 e il 1581 e fra il 1583 e il 1587 ottiene l’incarico di dipingere prima la sala Grande della scuola di San Rocco con le Scene del Nuovo e Antico Testamento; poi la sala Inferiore con scene della Vita della Vergine e dell’infanzia di Cristo. Per questi enormi cicli, forse il capolavoro di Tintoretto, l’artista studia ed elabora un’attenta regia teatrale, tesa a ottenere la massima resa espressiva dagli atteggiamenti delle figure e dalla loro illuminazione.
Mentre attende alle tele per San Rocco, riceve dalla Serenissima l’incarico della decorazione della parete di fondo della sala del Maggior Consiglio in palazzo Ducale con il Paradiso, 1588-1592; l’immensa tela (7 x 22 metri) è realizzata con l’aiuto di numerosi collaboratori, ma conserva l’impeto del maestro con un ritmo serrato di ellissi concentriche, che convergono nella luce divina alla sommità della tela. Di maniera del tutto opposta è la pittura di Paolo Veronese; egli, infatti, accosta i colori senza fonderli, con passaggi graduali, in modo che essi si esaltino reciprocamente sommando insieme qualità luminose. L’artista sviluppa così l’uso dei colori complementari, non utilizza il nero e predilige le ombre colorate, complementari al colore vicino, così come il bianco riflette i colori ai quali è accostato. Veronese, libero dalle costrizioni iconografiche dei temi religiosi, esprime il meglio della propria arte nei soggetti profani come per gli affreschi per la palladiana villa Barbaro a Maser (Treviso).
Il ciclo di pitture, voluto da Marcantonio e Daniele Barbaro e realizzato tra il 1560 e il 1562, è ricco di paesaggi,finte architetture, personaggi che si affacciano da porte o balconate realizzate con un sapiente uso del trompe l’oeil. La disinvoltura dell’artista nel trattamento dei soggetti, se ben accettata negli ambienti laici, in quelli ecclesiastici gli procura un processo per eresia a causa di un’ “Ultima cena” del 1573 dove, oltre a Gesù e agli evangelisti, partecipa una selva di servitori, buffoni, paggi, considerati ovviamente irriverenti. Il tribunale dell’Inquisizione, tuttavia, riconoscendo probabilmente le qualità del dipinto, obbligò il pittore a emendarlo delle figure più indegne e soprattutto a cambiarne il titolo che divenne “Il convito in casa di Levi” (Venezia, Gallerie dell’Accademia). Tra gli artisti dell’ultima generazione va ricordato Jacopo Negretti, detto Palma il Giovane (Venezia 1548- ivi 1628), la cui formazione avviene prima a Urbino, chiamato dal duca Guidobaldo della Rovere, e poi a Roma dove l’artista soggiornerà dal 1567 al 1573-1574, e dove ha modo di conoscere e confrontarsi con le opere di Taddeo e Federico Zuccari. Tornato a Venezia, la sua fama si fa presto solida, infatti già nel 1578 è chiamato alla decorazione del soffitto della sala del Maggior Consiglio in palazzo Ducale, per la quale dipinge le tele con la “Vittoria di Francesco Bembo sulla flotta dei Visconti a Cremona e Andrea Gritti che conquista Padova”, nell’ovale centrale dipinge “Venezia, incoronata dalla Vittoria, che riceve l’omaggio dei popoli soggetti.
Tra il 1580 e il 1581 è incaricato di portare a termine la “Pietà” lasciata incompiuta da Tiziano, il quale la voleva per la propria sepoltura. L’intervento permise a Palma il Giovane di venire a conoscenza diretta della tecnica tizianesca, che utilizzerà in dipinti quali il ciclo della sacrestia vecchia di San Giorgio dell’Orio. La presenza di Federico Zuccai in palazzo Ducale nel 1582 riapre in Palma il problema di un confronto con uno dei suoi maestri e con il manierismo di scuola romana. Gli esiti dell’avvicinamento alla maniera romana sono facilmente visibili nel telero con “Il papa Alessandro III e il doge che concedono a Ottone di trattare la pace con il Barbarossa”. Il 1583 segna l’inizio del ciclo dell’ospedale dei Crociferi, conclusosi nel 1592, massimo capolavoro di Palma il Giovane. Dopo la morte di Veronese e Tintoretto l’artista diviene per un trentennio protagonista del panorama pittorico veneziano, oberato di commissioni sparse per tutto il territorio della Serenissima. Tutta la produzione di Jacopo Palma non presenta segni ragguardevoli di mutamento: a Venezia, infatti, dopo la scomparsa dei grandi maestri la pittura si sterilizza nella ripetitività di formule e convenzioni. Vostra Elena P.
Davvero complimenti per questo post: chiaro, semplice e completo. Un bel modo di spiegare.
Saluti,
Walter
Elena dimostra le sue grandi capacità nella scrittura e il grande amore per l’Arte!
A GIUSEPPE, Uomo e Compagno d’incomparabile valore dirò semplicemente…Ciò che sono nel carattere e nella scrittura nasce dall’Amore e la mia Vita con Te è colma di un Sentimento puro, ineguagliabile e immenso. Mi piace pensare che…Io scrivo perché AMO, ma, di certo, io sono perché AMO TE!! Tua Elena!
Umilmente La ringrazio, Walter: il Suo gradimento mi onora, perché Lei tratteggia con molta intelligenza le doti principali di un buon giornalista: semplicità, chiarezza, comprensibilità. Davvero molto gentile la Sua valutazione: L’aspettiamo per altre visite e nuovi commenti, che saranno sempre benvenuti!! Cordialmente, Elena P.
Beautiful blog realy…. thanks. Best regards