Fra i centri umanistici di maggior rilievo nel Quattrocento figura Firenze e, anima del fervore di cultura e di arte che la caratterizza è Lorenzo de’ Medici, detto il Magnifico: “signore”, mecenate, scrittore, uomo di attività multiforme, la cui importanza e il cui significato storico sono non solo nelle opere che scrisse, ma nell’attività varia che svolse e, che con termine moderno definiremmo di promozione e organizzazione della cultura.
Nato a Firenze nel 1449, successe ancora giovanissimo al padre nella direzione della famiglia e della cosa pubblica, dando subito prova di un’abilità politica che, in quegli anni difficili, ebbe molte occasioni per manifestarsi: la congiura detta dei Pazzi, durante la quale Lorenzo venne ferito mentre fu ucciso il fratello Giuliano (1478); la guerra che ne seguì con il Papa; l’alleanza che riuscì a stringere con Ferdinando d’Aragona; l’equilibrio che promosse fra i vari Stati italiani. Per questo egli venne definito “l’ago della bilancia d’Italia” e, storici e politici quali il Machiavelli e il Guicciardini scrissero che la sua morte, nel 1492, segnò l’inizio di una fase nuova di storia e, fu tra le cause maggiori delle sciagure che presto seguirono.
Educato da insigni umanisti, il Landino, l’Argiropulo, il Ficino, amante sinceramente delle arti e, nello stesso tempo, incline a sfruttarle per calcolo politico, si circonda di letterati e artisti, realizzando nella sua persona la figura ideale del principe rinascimentale: alla sua corte, o in qualche modo legati a lui, prestano esercizio culturale Marsilio Ficino e l’Accademia platonica, Angelo Poliziano, Luigi Pulci, una miriade di umanisti, poeti, pittori, architetti, scultori. La stessa varietà d’interessi che abbraccia nel privato, permea la sua opera, che è quella, forse, nella quale più si avverte lo sperimentalismo proprio del tempo e, che appunto per questo è stata accusata spesso di dilettantismo, a definire una mobile curiosità che lo induce a interessarsi di tutto, tentando i generi e i toni più diversi, senza fermarsi mai su un motivo sentito congeniale e preminente.
Non scrisse in latino e, del volgare fu difensore non solo con l’esempio delle sue opere, ma anche con una sua attività di rinfrescatore delle glorie della nostra letteratura nella sua prima fase comunale. Sua, infatti, è la “Raccolta aragonese” (1476-1477), cioè una scelta di poeti delle origini che invia in dono a Federico d’Aragona e alla quale è premessa una lettera, quasi certamente di mano del Poliziano, che è, dopo il “De vulgari eloquentia” di Dante, un primo abbozzo di storia della lirica delle origini. E nella sua lirica, oltre agli spunti dottrinali che gli vengono dalla consuetudine con Marsilio Ficino, sono molti echi stilnovistici; anzi nelle “Rime” (sonetti, canzoni e sestine, divise in due parti, nella seconda delle quali è inserita una quarantina di componimenti in un “Comento del Magnifico Lorenzo sopra alcuni dei suoi sonetti” di evidente sapore dantesco) è possibile cogliere una linea evolutiva che, partendo dalla presenza del Tetrarca, si evolve verso un rinnovato stilnovismo intimo di cultura neoplatonizzante.
Gli stessi echi dottrinali, sempre di sapore neoplatonizzante o ficiniano, sono in altre opere, come “L’Altercazione” giovanile e le “Selve d’Amore”; mentre altre palesano una volontà evidente di rifare, umanisticamente, moduli classici. Tale l'”Ambra”, un poemetto in ottave, composto dopo il 1486, in cui, sulle orme dell’Ovidio delle “Metamorfosi” e del Boccaccia del “Ninfale fiesolano”, narra la storia mitica di una ninfa, Ambra, che, per sfuggire all’amore di Ombrone, il fiumicello vicino, sarebbe stata mutata in pietra. Tale il “Corinto”, un’egloga pastorale in cui, in mdi evidentemente desunti dai greci (Teocrito) e dai latini (Virgilio e la tradizione post-virgiliana), è cantato l’amore del pastore Corinto per la ninfa Galatea.
Accanto a queste opere, nelle quali, anche se la fattura non è mai di alta eleganza, è evidente la volontà di una letteratura di tono “alto”, ve ne sono altre, le sue più famose, nelle quali invece sono evidenti temi e modi della poesia popolare; i “Beoni”, un poemetto in terzine, ricco di caricature di contemporanei; l’ “Uccellagione di starne” o “Caccia col falcone”, poemetto in terzine, che descrive in modi realistico-giocosi una caccia col falcone; canzoni da ballo; canti carnascialeschi, cioè canti carnevaleschi posti in bocca alle maschere che sfilavano su carri allegorici. Liriche, queste, composte per lo più da autori popolari, “intonate”, cioè musicate, sui metri e sui motivi musicali delle laude, scopertamente sensuali, ricche di doppi sensi e di tratti vibranti di una gioia sfrenata di vivere: un canto carnascialesco è quella “Canzone di Bacco e Arianna”, nella quale si è sempre visto il capolavoro del Magnifico.
Partecipe di quest’ispirazione è anche un poemetto rusticane in ottave, il metro dei cantiori e dei rispetti, intitolato “Nencia da Barberino”, sulla cui attribuzione si è molto disputato, in quanto è stato attribuito, ma senza prove convincenti, a un Bernardo Giambullari. L’autore pone in bocca a un pastore, Vallera, una serie di rispetti d’amore, si dicevano rispetti continuati, per una pastorella, Nencia da Barberino, per cantare, su uno sfondo rusticano e in una lingua contesta d’idiotismi del contado toscano, le bellezze della donna, la passione dell’uomo, la sua malinconia. Ma non scende mai, come fu poi in tanta altra letteratura del genere, a una satira scoperta e superficiale del “villano”, mentre però nasconde (non poteva né voleva nasconderlo) il distacco dell’autore da quel mondo che ai suoi occhi di cittadino e di uomo colto non poteva non apparire rozzo, tanto nei sentimenti quanto nel modo di viverli e di esprimerli.
La “Nencia” perciò, appunto perchè è un capolavoro di equilibrio, mostra evidente il carattere subalterno che la lirica popolare e, dietro di essa, il popolo, avevano agli occhi del letterato umanista. Un fatto, questo, che aiuta a capire un atteggiamento mentale che si protrasse per secoli, mentre sfata tante leggende sul “populismo” sentimentale o sulla “popolarità” letteraria di questi nostri scrittori. Lorenzo e, così negli stessi anni il Poliziano, negli anni seguenti tanti altri, si divertivano a studiare e a rifare un’umanità inferiore, cioè che essi consideravano inferiore, i cui modi di sentire e di esprimersi inserivano intatto nella propria opera, con elegantissimo divertimento umanistico, in uno sfoggio di spericolata abilità. La letteratura popolare, dunque, fu assunta nelle opere di Lorenzo come degli altri umanisti con la coscienza precisa del suo carattere subalterno e, quindi, della possibilità di accostarsele solo considerandola materia di divertimento elegante: un prontuario di temi e di toni da mettere assieme a quelli che offrivano la tradizione classica da una parte, quella romanza dall’altra. Una scelta, nelle opere di Lorenzo, dei motivi e dei toni “maggiori” o “poetici” non può essere, proprio per la varietà di quell’opera, che una scelta di gusto, un fatto soggettivo.
Il che spiega come alcuni abbiano additato il Lorenzo migliore nei suoi momenti realistici, altri in certi moti di distacco malinconico dalla città e dagli affari, altri ancora in una diffusa atmosfera di sensualità e di malinconia, venata dal pensiero della caducità delle cose. In realtà, questi motivi si ritrovano presenti e intrecciati in tutte le opere del Magnifico, a qualsiasi gruppo esse appartengano; mentre in ognuno di quei gruppi si trovano liriche o momenti maggiormente riusciti. Come alcuni passi della “Nencia” o la “Canzona di Bacco” e “Arianna” sono le sue cose meglio riuscite nei modi popolari, così la fine del “Corinto”, con il tema tipicamente rinascimentale della caducità delle cose e della vita, costituisce il vertice della sua poesia classicheggiante, mentre passi sparsi qua e là, per esempio la descrizione dell’Inverno nell'”Ambra”, denotano quale capacità egli avesse di guardare e rendere realisticamente la modesta realtà quotidiana, mentre, infine, alcuni sonetti o la seconda delle “Selve d’Amore” la sua abilità nel rifare i motivi della malinconia, della caducità delle cose, del desiderio di solitudine e di evasione. Vostra Elena P.