“E’ inutile dire che gli esseri umani dovrebbero accontentarsi della tranquillità: hanno bisogno di azione e se non la trovano, la fanno…Di solito si crede che le donne siano molto calme: ma le donne sentono tutto quanto sentono gli uomini; hanno bisogno di esercitare le loro facoltà e di trovare un campo per i loro sforzi, non meno dei loro fratelli; soffrono di costrizioni troppo rigide, di una stagnazione troppo assoluta, esattamente come soffrirebbero gli uomini; ed è meschino dalla parte dei loro prossimi più privilegiati dire che esse dovrebbero limitarsi alla confezione di budini o calze, o suonare il piano e ricamar borsette”.
Questo è un brano tratto dal romanzo “Jane Eyre”: la sua autrice Charlotte Brontë, passò buona parte della sua pur non lunga vita in una canonica dispersa tra le brughiere dello Yorkshire a rammendar calze e a scrivere. E chi ha avuto la ventura di leggere “Cime tempestose”, dopo un avvio di lettura, non ha forse dovuto riporlo per attimo, assalita da una specie di repulsione e attrazione insieme, per poi riprenderlo con la meraviglia che un libro di tal fatta possa essere stato scritto da una donna? La sua autrice Emily Brontë, sorella di Charlotte, viene così descritta da Monsieur Héger, il direttore del collegio di Bruxelles presso cui le due sorelle soggiornarono per un periodo, per motivi di studio: “Aveva una testa fatta per la logica e una capacità di argomentare insolita in un uomo e rarissima in una donna. Avrebbe dovuto esser un uomo, un grande navigatore. La sua ragione potente avrebbe dedotto nuove sfere di conoscenza dalle antiche; e la sua forte, imperiosa volontà non si sarebbe lasciata scoraggiare da opposizioni e difficoltà. Ma sembrava esigente ed egoista in confronto a Charlotte, che era sempre altruista”.
Se Charlotte esprime vivamente la sua protesta, per non poter agire nel mondo, in quanto donna e non aver modo di godere dei piaceri della vita e dell’azione, Emily vi rinuncia in partenza e, anzi, arriva a soffocare ogni desiderio per le opportunità, che la vita le offre. Bella, altera, tenace, intollerante, scelse l’autoreclusione per dar forma a una vita vuota di tutto: di amicizie, di amore materno, di benessere materiale, di salute, Emily non ammetteva separazioni, della sua brughiera fece il paesaggio della sua anima e ogni volta che se ne allontanava si ammalava di consunzione. Morì due settimane dopo la scomparsa del fratello Branwell, dedito all’alcool e alla cocaina, rifiutando ogni cura. Charlotte era altruista, come dice di lei Monsieur Héger, aperta al mondo e vogliosa di vincere, nonostante la reclusione e la lontananza dalle grandi tangenti della vita.
Fu lei a curare la pubblicazione dei suoi romanzi e di quelli delle sorelle; fu lei la coscienza di quel genio dell’immaginazione, che aveva allignato con tanta abbondanza nella sua famiglia e a fare progetti di lavoro per guadagnarsi di che vivere; fu lei a sognare qualcosa che non somigliasse solo all’indigenza. Il suo occhio acuto, attento a cogliere i segreti della sua immaginazione, era però rivolto anche al mondo, quel poco che aveva conosciuto o che veniva man mano conoscendo, per denunciarne i vizi e l’ingordigia, ma anche per affermarvi la sua presenza dissenziente. Da dove veniva questa passione per il gioco dell’immaginazione, unico lusso che le sorelle Brontë poterono permettersi in vite segnate da lutti, stenti e malattie? Da quali fonti attinsero la materia incandescente dei loro romanzi e delle loro poesie? Figlie di un pastore protestante, il reverendo Patrick Brontë, trascorsero la loro vita in un presbiterio dello Yorkshire, situato nei pressi di Haworth, un borgo di poco meno di 5000 anime, sperduto tra le brughiere e i pascoli delle cime settentrionali dei Monti Pennini.
La canonica sorgeva sulla vetta di una landa desolata battuta dai venti. Qui il reverendo Brontë si trasferì nel 1820, con sei figli e una moglie stremata dalle gravidanze e da una grave malattia, che la porterà alla morte l’anno dopo. La signora Maria Branwell aveva dato alla luce Maria nel 1813, Elizabeth nel 1815, Charlotte nel 1816, Patrick nel 1817, Emily nel 1818 ed Anne nel 1820. La prima mancanza di cui i piccoli Brontë soffrirono fu quella della madre. Negli ultimi tempi della sua malattia la signora Brontë evitava di avere con sé i bambini anche per brevi momenti della giornata, perché la loro presenza le destava emozioni troppo forti. Il reverendo Brontë era senz’altro un uomo singolare e, a suo modo, di genio. Irlandese di nascita, lasciò la sua terra a 25 anni per laurearsi a Cambridge e ottenere gli ordini ecclesiastici. Uomo di forti passioni, era umorale in politica: accanitamente conservatore, grande ammiratore dell’ammiraglio Nelson, portava con sé regolarmente la pistola dopo essersi guadagnato le antipatie degli operai luddisti di Heartshead, che lo videro prendere posizione per la repressione del loro movimento.
Quella pistola risuonava in colpi a rapida successione, quando qualcosa andava per il verso sbagliato nel ménage familiare: la gentile Maria Branwell, sua moglie, sempre disposta a vedere le cose dal lato migliore, diceva: “Come potrei non provare gratitudine per un uomo che non mi ha ma rivolto una parola irosa?”. Nell’ambito casalingo imponeva uno spartano modo di vivere: ai bambini era concesso solo di mangiar patate e le frivolezze del vestiario non erano concepite. Per meglio asserire questo concetto austero della vita, arrivò anche a bruciare anche degli stivaletti colorati dei figli e a tagliare in fini striscioline un vestito di seta della moglie. Insofferente della numerosa prole e degli inconvenienti della vita quotidiana, passava buona parte del tempo rinchiuso nel suo studio a scrivere sermoni e poesie e, misantropo per natura, evitava contatti frequenti con i suoi simili e il suo gregge che, peraltro, apprezzava il relativo disinteresse del curato.
Gli abitanti dello Yorkshire non amavano i ficcanaso e i loro costumi alquanto pagani e poco riducibili alla pacifica convivenza non richiedevano moralizzatori di sorta. Di lontana ascendenza vichinga, conservavano la tradizione della vendetta come dovere ereditario che si tramandava di padre in figlio. Il bere era considerato atto altamente virile e i passatempi preferiti erano le corse dei cavalli nella brughiera, le partite di calcio con le pietre, i combattimenti dei galli, colossali bevute e zuffe. I piccoli Brontë, soli per buona parte della giornata e liberi di disporre del loro tempo, isolati dagli altri bambini e privati della spensieratezza dell’infanzia, inventarono un mondo a parte, in cui le saghe nordiche si mescolavano ai racconti spesso orridi delle domestiche, alla cronaca politica del tempo e al folclore locale. Rinchiusi in una stanzetta della canonica, iniziarono a inventare storie che prima Charlotte e Patrick, poi anche gli altri, trascrivevano in una calligrafia minutissima su foglietti di carta grandi un palmo.
I personaggi originari di queste storie erano dei soldatini che il padre aveva regalato a Branwell (così usavano chiamare il figlio maschio dopo la morte della madre) e tra i quali ciascuno si era scelto il proprio eroe. Il gioco dell’immaginazione creò vincoli strettissimi tra di loro e fu fonte di grande ispirazione per la scrittura delle tre sorelle, Anne, Emily, Charlotte. Il reverendo Brontë amava parlare coi figli di politica e di tutto quanto lo interessasse al momento. Per ottenere dai bambini la massima spontaneità di giudizio, escogitò uno stratagemma che si rivelò quanto mai efficace; li invitava a indossare delle maschere ogni volta che la loro opinione era richiesta sui più svariati argomenti e le risposte che riceveva erano a volte sconcertanti, considerata l’età degli interlocutori. Una volta li mise in fila e cominciò col chiedere ad Anne cosa mancasse principalmente in una bambina della sua età. Rispose: “Gli anni e l’esperienza”. Chiese poi ad Emily cosa convenisse fare con Branwell che a volte si comportava male; rispose “Farlo ragionare e, se non vuole dare retta, frustrarlo”. A Charlotte chiese quale fosse il miglior libro del mondo; rispose: “La Bibbia e Il libro della natura”.
Charlotte fece senz’altro tesoro di questi due grandi libri cui spesso affidò le sue pene nel succedersi continuo di lutti, difficoltà economiche, degradazione fisica e morale, che caratterizzarono la sua insolita famiglia. Una famiglia mimata dalla tisi, che si portò via dapprima Maria ed Elizabeth, a causa delle privazioni subite nel collegio di Cowan’s Bridge, nel 1825. Charlotte prese allora il posto di Maria nella funzione di vice-madre dei fratellini e, in parte, anche del padre, con cui fu sempre premurosissima. Gli anni successivi furono un continuo viavai tra la canonica e i collegi per fanciulle dei paesi dei dintorni dove le ragazze Brontë ricevettero un’educazione sommaria, interrotta spesso dalle malattie dell’una o dell’altra. Charlotte in collegio riusciva a intessere amicizia durature e intense, anche se evitava di affezionarsi troppo perché le sue speranze di una vita felice erano molto esili e quel fondo di misantropia ereditato dal padre così presente, che non poteva sciogliersi in rapporti così calorosi del consentito.
“Era abitudine delle sorelle, quando si trovavano riunite a casa, cucire fino alle nove di sera: riponevano il lavoro e incominciavano a passeggiare su e giù per la stanza, dopo aver spento le candele…; avanti e indietro, avanti e indietro, messe in luce un istante dalla brace del caminetto, e subito riassorbite dall’ombra. Era il tempo della giornata in cui parlavano delle difficoltà passate, delle preoccupazioni presenti; facevano progetti per l’avvenire e ragionavano sui loro piani. Negli anni successivi fu l’ora e il modo in cui discussero l’intreccio dei loro romanzi”. Così Elizabeth Gaskell, nel suo bellissimo “La vita di Charlotte Brontë”, descrive quel fertile rapporto tra le sorelle che le porterà a scrivere i loro romanzi, a essere ognuna lo specchio per l’altra, solidali congiurate dell’immaginazione. Il fratello Branwell, nel frattempo, si era perso per strada e del suo tesoro fece un pessimo uso, diventando intrattenitore prima e bevitore usuale poi, all’osteria del paese. Le sorelle, che lo avevano considerato il vero genio della famiglia, dovettero accollarsi il suo lento e precoce declino di ubriacone. In particolare Emily, che lo definì “un essere senza speranza”, gli si mise accanto: lo assistette, lo trascinava a letto la notte, lo salvò dal fuoco che aveva appiccato alle coperte…
Charlotte venerava Emily; nelle sue lettere alla sorella iniziava con “Amore mio…”, ma di lei scriveva: “Su quello spirito solo il tempo e l’esperienza avevano presa: all’influenza degli altri intelletti non era sensibile”, ammettendo la sua impossibilità di penetrarla. Anne, mite e dolce, la più riservata e forse la più “costretta” al gioco dell’immaginazione e della scrittura, nei suoi romanzi “Agnes Grey” e “The Tenant of Wildfell Hall” descrive con efficacia i terribili effetti di un ingegno del male impiegato e dell’abuso delle sue facoltà, con evidente riferimento al fratello. Dice di lei Charlotte: “L’indole sensibile l’inclinava al riserbo e alla depressione; quello che vide la penetrò profondamente nella mente; le fece male…Era una sincerissima cristiana praticante ma la componente di religiosa malinconia gettò una triste ombra sulla sua breve vita senza macchia”.
Anne, come le sorelle, lavorò anche in qualità di governante presso ricche famiglie dei dintorni e le umiliazioni subite sono efficacemente descritte nei suoi romanzi che, in sintonia con quelli di Charlotte, sono vere e proprie denunce. I caratteri maschili dei romanzi delle sorelle sono spesso rozzi, brutali, quasi ai limiti dell’irrealtà. Ma quali occasioni avevano avuto per avere una dimensione più umana del maschio che non fosse quella dei loro conterranei così poco inclini alla misura o dei loro famigliari, altrettanto eccessivi? Come molte scrittrici dell’epoca, anche le Brontë pubblicarono i loro lavori sotto pseudonimi maschili: Currer, Ellis e Acton Bell (i tre pseudonimi corrispondono rispettivamente a Charlotte, Emily e Anne). Tra il 1846 e il 1848 escono le loro opere più importanti: “Cime Tempestose”, le poesie, “Jane Eyre”, ”Agnes Grey”, “The Tenant of Wildfell Hall”. Il successo dei loro romanzi le tocca ben poca, in particolare Emily, che rifiuta con ostinazione di scoprire la sua vera identità. Durante la malattia di poco precedente la morte, Charlotte, per distrarla, le legge una critica apparsa sulla North American Review, dove Emily è descritta come “un uomo di un talento fuor dal comune, ma ostinato, brutale e cupo”. Emily risponde con un sorriso ironico.
A Charlotte tocca la dura sorte di accompagnare le amate sorelle e il fratello alla fine delle loro brevi vite, per poi continuare da sola un cammino aspro e limpido di coerenza con se stessa. Tra il 1848 e il 1849 muoiono Branwell, Emily e Anne. Forse la ferma convinzione che certuni erano destinati al dolore e a molte delusioni prima di nascere e che non toccava a tutti, di avere il proprio sentiero tracciato in modo piacevole la sorresse nell’accettazione di tanta pesantezza di vivere. La scrittura continuò ad essere il suo filo conduttore, tanto che pubblicò ancora due romanzi: ”Shirley e Villette” nel 1853. Ebbe anche la forza di andare contro se stessa e di concedersi il piacere di qualche mondanità, soggiornando a Londra per brevi periodi, nella “grande Babilonia” desiderata e immaginata della sua gioventù. Della difficoltà di assaporare i piaceri della vita leggiamo in una sua lettera: “Posso vedere il Pozzo della Vita in tutta la sua limpidezza e in tutto il suo fulgore. Ma quando mi chino per bere le sue pure acque, esse si ritraggono alle mie labbra come se io fossi Tantalo”
La compagnia del vecchio padre e qualche breve visita alle amiche erano l’unico sollievo alla sua solitudine, spesso rattristata dal ricordo di chi non c’era più. Charlotte ebbe infine anche il coraggio di sposarsi, andando contro la volontà del padre, contrario per principio al matrimonio, e di rimanere incinta. Purtroppo questo progetto di vita, forse, finalmente sua, non ebbe esito: il 31 marzo 1855 morì, portata via anche lei dalla malattia, che riuscì ad averla vinta su un corpo esile da sempre sorretto dalla forza di una mente straordinaria! Vostra Elena P.