Luigi Pirandello nacque nel 1867, nella Valle del Caos, nei pressi di Girgenti e morì nel 1936, dopo avere conosciuto una rinomanza mondiale, sanzionata, nel 1934, dal premio Nobel. La sua attività letteraria può essere divisa in due grandi periodi creativi; nel primo, che giunge fino agli anni della grande guerra, predomina l’ interesse per la narrativa, nel secondo, quello per il teatro.
Fra il 1901 e il 1914 scrisse, infatti, i suoi romanzi (tranne “Uno, nessuno e centomila”, pubblicato nel 1926): “L’esclusa”, “Il turno”, “Il Fu Mattia Pascal” (1904), “I vecchi e i giovani”, “Si gira” (rielaborato più tardi e pubblicato col titolo (Quaderni di Serafino Gubbio operatore) e “Suo marito” (che divenne, poi, Giustino Rondella nato Boggialo); e inoltre alcuni volumi di novelle. Altre ne compose negli anni successivi e, le raccolse tutte, verso la fine della sua vita, nei 24 volumi delle “Novelle per un anno”. Negli anni fra il 16 e il 36 compose quasi tutti i suoi drammi e, fondò anche una compagnia teatrale, intitolata al suo nome, che li diffuse con vivo successo in ogni parte del mondo. Ricordiamo fra essi “Sei personaggi in cerca d’autore”(1921), “Enrico IV” (1922), “Liolè, “L’uomo dal fiore in bocca”, “Così è (se vi pare)”, “Questa sera si recita a soggetto”, che sono i suoi capolavori e, ancora “Pensaci Giacomino!”, “Vestire gli ignudi”, “All’uscita”, “Ciascuno a suo modo”, “La nuova colonia”, “I Giganti della montagna”.
La produzione narrativa del Pirandello nasce in margine al Verismo, ma sin dall’inizio se ne distacca per una nota polemica più violenta, per una visione amara e paradossale della vita e un’ironia corrosiva, che rimarranno i tratti fondamentali della sua arte. Più che a una pittura d’ambienti, il Pirandello è attento all’individuo, alla sua angoscia di uomo solo, umiliato e offeso dagli altri e dalla vita. I suoi personaggi sono prevalentemente piccoli borghesi, dall’esistenza grama e soffocante, che oppongono allo sfacelo d’una società ormai in piena decomposizione e al suo conformismo piatto e assurdo, la brama di vivere, di essere qualcuno. Ma questa brama, sempre insoddisfatta, s’esaspera in gesti bizzarri, in allucinate stravaganze, in una o più lucida follia: nel riconoscimento, comunque, dell’impossibilità di vivere e di ogni ribellione.
All’origine di questo atteggiamento c’è, nell’autore, la consapevolezza d’una frattura storica, della disgregazione totale della civiltà romantica e borghese. Essa gli appare intesa a mascherare il crollo dei propri ideali dietro un’enfasi astratta o dietro febbrili esaltazioni (come quella dannunziana), che rivelano il vuoto e la falsità d’un mondo fondato sull’apparire, non sull’essere. L’abbandono alle correnti irrazionalistiche e ai falsi miti dell’eroismo superumano aveva infranto il senso della continuità della storia, che si fonda sempre sulla possibilità di vera comunicazione fra gli individui. E’ nata così quella che noi chiamiamo “incomunicabilità” o alienazione dell’uomo moderno, che si ritrova solo in un mondo di parvenze assurde, negato non solo al colloquio con gli altri e con Dio, ma anche con sè stesso, dato che la persona si attua proprio nell’armonico rapporto con gli altri e con il mondo.
L’arte del Pirandello è la denuncia, lucida e, insieme angosciosa di questa crisi. Egli non ne indaga le cause sociali e morali, ma appunta il suo interesse sul dibattersi dell’io, travolto dal caos della vita, anelante, ma invano, a essere, a ritrovarsi autenticamente vivo. Nell’universo inspiegabile e nella società tutto appare relativo, anche la persona, ridotta a una molteplicità di atti e di gesti mutevoli, che è impossibile cogliere e fissare per sempre in una forma. Ciascuno è “uno” e “centomila” e, cioè, in pratica nessuno. Invano cerchiamo di sovrapporre al libero fluire della vita una forma, una coscienza, una personalità che serva a noi stessi e agli altri per definirci, per possederci: questi fragili schemi vengono di continuo travolti e, il nostro io, la realtà quotidiana, sono soltanto un’apparenza multicolore, diversa per ogni persona che ci guarda e anche per noi stessi; esse rivelano la loro reale inconsistenza soprattutto quando il dolore, la morte o il giuoco cieco del caso distruggono le illusioni e mettono a nudo la vera sostanza della vita.
La scoperta del vuoto, del baratro continuamente in agguato sotto di noi è la situazione centrale dei drammi pirandelliani. Ma va aggiunto che la scelta dell’espressione teatrale non fu un fatto estrinseco: il teatro fu per Pirandello il simbolo della vita, la scena irreale dove recitiamo, volta per volta, centomila parti, simili ad attori drammatici. Questa corrispondenza è evidente in uno dei più bei drammi del Pirandello, i “Sei personaggi in cerca d’autore”, dove i sei protagonisti, figure appena abbozzate da uno scrittore e poi abbandonate a se stesse, chiedono con angoscia che qualcuno completi l’opera lasciata in tronco e, li faccia vivere autenticamente. Si protendono, cioè, nell’attesa d’una mente creatrice che dia loro una “forma”, una consistenza piena, che li saldi dalla dispersione nel relativo e dalla sofferenza senza nome e senza perché: ma invano, perché ormai sono stati travolti dal vortice caotico e oscuro della vita. Quei personaggi sono simili all’uomo, anch’esso creato da un autore che lo ha abbandonato nel relativo, costringendolo a recitare senza fine una parte priva di significato.
L’arte del Pirandello è caratterizzata e spesso inquinata dal prevalere del gusto del paradosso, da un intellettualismo lucido ma a volte capzioso. I suoi personaggi si agitano, si dibattono, in una continua disputa con se stessi e con gli altri, denunciano, con ironia gelida, l’artificiosità di tutte le costruzioni spirituali, la vanità di ogni più salda certezza. E’ un’ironia dissolvente, perché, a ben guardare, dietro i falsi rapporti sociali e morali non c’è che il nulla, l’incomprensibile caos primigenio dell’essere insondabile. E tuttavia, di là dalle negazioni dell’intelletto, il Pirandello scopre nel nostro essere un’insopprimibile ansia di vita, la nostalgia d’un esistenza vera, naturale e pura. La tragedia dell’uomo pirandelliano è il suo essere per il nulla; il destino paradossale e angoscioso di chi porta in sè una scintilla divina (ma si tratta di un Dio sconosciuto e inconoscibile), un’ansia di verità e d’eternità, ma per vederla morire in un mondo futile d’apparenze.
Il suo dramma consiste nel non riuscire a placarsi nell’insensibilità che è propria delle cose, né, d’altra parte, a risalire dalla dispersione e dall’esilio del relativo a una comunione con la realtà vera dell’essere, di cui il nostro protenderci, nell’arte e nella vita, verso una “forma” esprime il presentimento e il desiderio vano. In questa angoscia il Pirandello scopre la dignità vera dell’uomo, che lo spinge a inchinarsi sulla sua pena con dolente pietà. La grande risonanza dell’opera del Pirandello fu dovuta al fatto che essa coglieva una problematica spirituale, che sarebbe stata approfondita dalla filosofia dell’Esistenzialismo nel travagliato periodo fra le due guerre mondiali. Inoltre essa fu rivoluzionaria non solo nei contenuti, ma anche per quel che riguarda le forme della rappresentazione teatrale, sìcche offrì importanti suggerimenti a tutto il teatro mondiale contemporaneo, da O’Neill ad Anouilh, da Jonesco a Beckett. Vostra Elena P.
Ciao mi chiamo Silvia e scrivo da Forlì. Ho letto l’intervento nel tuo blog a proposito della mia tesina per la meturità….porto il teatro del ‘900 come specchio della crisi del secolo…siccome i mie professori ci hanno dato come unico consiglio quello di arrangiarci…potresti dirmi se secondo te van bene gli autori che ho scelto?
Italiano: Pirandello
Inglese: Beckett
Francese: Ionesco
Spagnolo: Ramon del Valle-Inclà n
Scusa..ma il panico sta salendo
Anche io faccio una tesina simile e come te ho scelto Pirandello e Beckett!!!!