Da “Banditi a Milano” di Lizzani a “Sotto una buona stella” di Verdone, dal “Porcile” di Pasolini a “Manuale d’amore 3” di Giovanni Veronesi, e poi ancora “Sogni e delitti” di Woody Allen, e i cinepanettoni come “Christmas in love” o “Natale a New York” di Neri Parenti, passando per i film di Fellini, Ermanno Olmi, Dino Risi… quante pellicole ha raccontato in una manciata di secondi Miro Grisanti, il più celebre trailer maker italiano in più di mezzo secolo di carriera!
La sua storia professionale, che si intreccia inevitabilmente con la sua vicenda umana, è raccontata nella autobiografia pubblicata postuma da Rubbettino dal titolo “Io, l’uomo dai mille trailer”, a cura di Fabio Micolano e Giulio Grisanti, con due note di Aurelio e Luigi De Laurentis, in questi giorni in libreria.
Miro (Valdimiro) Grisanti era nato a Roma il 9 luglio 1931. A 17 anni aveva iniziato a lavorare come disegnatore di titoli di testa di film in bianco e nero alla S.A.C.I. il più prestigioso stabilimento cinematografico di quegli anni.
Nel 1961 incontra il disegnatore satirico Pino Zac e insieme realizzano alcuni cortometraggi animati che riscuotono grande successo. Nel 1966, il suo primo trailer per il film “Agente Z55 missione disperata”. Durante la sua lunga carriera ha collaborato con i maggiori registi e produttori italiani realizzando più di mille trailer. È morto a Roma il 13 agosto 2022.
Miro Grisanti è stato il responsabile di innumerevoli battute e stacchi di montaggio che nel buio sacrale della sala cinematografica, o attraverso i ripetuti passaggi televisivi, sono rimasti impressi nella memoria collettiva. Col suo lavoro di trailer maker, Grisanti ha rielaborato i film destrutturandoli e ricomponendoli in una sintesi, di durata variabile dai novanta ai quindici secondi (a seconda della destinazione d’uso), volta a colpire anche lo spettatore più distratto o smaliziato, per convincerlo ad andare al cinema.
Una vera e propria riscrittura cinematografica, finalizzata a valorizzare il contenuto del film da promuovere, ma anche a depistarne il percorso narrativo e a dissimulare le atmosfere al fine di non rivelare troppo della trama, o talvolta per mostrare i pochi elementi attrattivi, quando, proprio per la sua indiscutibile capacità, veniva chiamato a salvare film impresentabili.
«Miro – scrive Luigi De Laurentis nel libro – aveva la “passione”, possedeva la creatività estrema di un artista che aveva definito un’era e uno stile. I trailer hanno l’ardua responsabilità di raccontare un film nell’arco di pochissimi minuti. Soprattutto il compito di creare l’impulso emotivo nello spettatore che in quel momento potrebbe decidere quale film scegliere come prossima visione. Il lato più affascinante del suo mestiere era poter riscrivere la sceneggiatura emotiva/narrativa di un film per raccogliere quanto più interesse possibile. Adoperando scene e/o inquadrature diverse non utilizzate dal regista, ma a corredo di ciò che serviva per rendere quel momento speciale»
A proposito di Miro Grisanti, Enrico Vanzina ha detto: «Per me e mio fratello Carlo il primo vero giudizio era quello di Miro. Il mondo del cinema si divide in due categorie: i signori e i cafoni. Esistono tanti cafoni nel cinema, ma esistono anche tanti signori. Miro Grisanti è stato un grandissimo signore, come Luigi De Laurentiis e mio padre, Stefano Vanzina, in arte Steno».
Neri Parenti: «Miro in tutti questi anni mi hai dato un sacco di fregature perché vedevi un trailer e dicevi: “È un buon film”, poi andavi al cinema ed era una boiata terribile! Più il film era brutto e più andavano da Miro!».
Carlo Verdone: «Se c’è una cosa che non sarei in grado di fare nel cinema, è il trailerista. Specialmente di un mio film. Ritengo che i registi dovrebbero lasciar realizzare agli specialisti del settore le presentazioni dei loro lungometraggi. I bravi traileristi sono dei creativi, registi a loro volta perché in grado di “riscrivere” in pillole la grammatica del film. Hanno un grande intuito e una incredibile capacità di sintesi, ma allo stesso tempo vedono il film da spettatori. Ho avuto la fortuna di lavorare pìù volte con Miro, a partire da “Borotalco”, e sono rimasto sempre ammirato dei miracoli che è riuscito a compiere nei trailer di un minuto, trenta e quindici secondi».
Fotogrammi da alcuni dei trailer di Miro Grisanti
Un estratto dal libro
FELLINI
1986. A volte lo squillo del telefono mette addosso una strana inquietudine non comprensibile e che non ha nessuna ragione di essere. A volte infastidisce soltanto perché pensi sia una scocciatura. Ma quando inaspettata arriva quella telefonata allettante, che fiuti possa offrire un modo nuovo di affrontare e risolvere un problema, beh! Allora… «Pronto Miro, sono Ruggero». «Ruggero chi?». «Ruggero Mastroianni, fai sempre finta di non riconoscermi». Era il solito sciocco gioco che ripetevo ogni qualvolta mi telefonava. «Come tu già saprai sto montando Ginger e Fred, il film di Federico dove ci sono molti effetti grafici da realizza- re, sono particolarmente difficili e Fellini è d’accordo a passarti questa patata bollente. Se domani vieni in moviola ne parliamo».
«Certo che passo, l’occasione di lavorare con Fellini non capita tutti i giorni». Saldo nei miei principi di voler collaborare il più possibile con importanti personaggi perché è sicuramente più faticoso, ma hai la probabilità che qualche briciola del loro talento
ti rimanga appiccicata addosso e ti faccia crescere sia culturalmente che professionalmente. Il mattino seguente dopo il rituale caffè nel bar di Cinecittà, saliamo in moviola dove Ruggero mi rende partecipe nei dettagli di cosa avrei dovuto realizzare. Io lo guardo alquanto preoccupato e poi senza accorgermene esclamo a voce alta: «Ma qui ci vorrebbe un miracolo!». E Ruggero sorridendo esclama: «Caro Miro è per questo motivo che abbiamo pensato a te, in giro non si dice che fai miracoli?». «Non scherzare – rispondo. E sempre più preoccupato chiedo – in quanto tempo dovrei realizzare questo miracolo? Per un lavoro così complesso ho bisogno di organizzare uno staff di bravi professionisti, anzi bravissimi. Devo anche trovare un laboratorio bene attrezzato, disposto a mettersi a nostra esclusiva disposizione. E non dimenticare che siamo quasi a fine luglio e le persone normali hanno già programmato le loro vacanze». Ruggero sempre sorridendo replica: «Lo so, ma non stavamo parlando di miracoli?». Sapevo già che avrei comunque accettato nonostante le difficoltà, ma volevo almeno vendere cara la pelle. Chiesi con falsa indifferenza: «Si! Ma quanto tempo ho?». Ruggero si fa improvvisamente serio e mi spara a bruciapelo un secco: «Soltanto il mese di agosto». È qui che mi accorgo di non avere alternative, prendere o lasciare. No! Lasciare mai! Non si può rifiutare un film di Fellini.
Certamente il primo miracolo da fare sarà convincere mia moglie a non chiedere il divorzio, perché per il mese di agosto avevo già prenotato una casa al mare e si stava ripetendo la stessa cosa accaduta l’anno precedente in Sardegna, sempre nel mese di agosto, quando appena arrivato in albergo, senza nemmeno avere avuto il tempo di aprire la valigia, dalla hall mi passano una telefonata. «Pronto Miro!». Una voce dall’inconfondibile “vernacolo” toscano che ben conoscevo mi apostrofa. «Pronto
Miro son Mario Cecchi Gori. So che sei in Sardegna con la tu famiglia e mi dispiace chiederti di interrompere la tu vacanza, ma mi occorre la tu presenza qui a Roma. Si sono liberati all’improvviso degli spazi in alcune mie sale e l’ho da rimpiazzare con il mio ultimo film che purtroppo non ha ancora il suo trailer. È una occasione che non posso perdere!». «Ma Mario sono appena arrivato qui con la mia famiglia e con degli amici». «Ovvia Miro, l’è un lavorino di due, tre giorni, ti fo trovare i biglietti a tuo nome all’aeroporto di Sassari. All’aeroporto di Fiumicino ti fo trovare una macchina col mio autista che ti porterà direttamente in moviola a Cinecittà, ci si vede sul presto domani di prima mattina, ciao!». Capito perché diffido delle telefonate inaspettate? Capito perché temo che mia moglie chieda giustamente il divorzio? I pochi giorni sono diventati una decina e io ho fatto appena in tempo a tornare, farmi un bagno in quel mare meraviglioso, rifare le valige e riprendere la strada del ritorno. In aereo ho chiesto a mia moglie: «Ti sei divertita?». «Io non tanto – mi risponde – ma tu si vero? Non sai proprio dire no!». E un po’ adirata prosegue: «Sotto il sole a volte mi sembrava di vederti seduto in moviola con pezzi di pellicola intorno al collo mentre ti accanivi a scovare con pignoleria quel fotogramma in più che dava fastidio solo a te». Non era vero che non sapevo dire no! Ero io che non lo volevo mai dire no! E poi a Cecchi Gori, un gigante del settore che mi ha sempre dimostrato tanta stima e affetto. È stato così anche per altri importanti personaggi del nostro cinema. Ma questo a mia moglie non l’ho mai detto, anche se sono certo che con quella sensibilità che hanno soltanto le donne lo ha sempre saputo. Torniamo a noi. Mi piace bighellonare tra le migliaia di ricordi della mia vita. È un modo di rivivere quei momenti, e questo mi fa sentire addosso la stessa età in cui li ho vissuti. Scrivendo inoltre ho la sensazione di scrollarmi di dosso tutta quella fastidiosa patina di polvere che con gli anni si è accumulata sulle mie spalle.
Le difficoltà per il lavoro del film di Fellini erano molteplici. Come prevedeva la sceneggiatura, Federico aveva girato diverse scene con gli attori che nei rispettivi ruoli recitavano in ambienti dove dei televisori proiettavano le loro immagini. Nel 1970 queste scene venivano girate in due tempi differenti. Nella prima ripresa gli attori sul set recitavano le parti con il televisore spento, nella seconda ripresa si giravano le scene da posizionare negli schermi. Poi si accoppiavano le due riprese con un doppio passaggio nella solita truka (la sofisticata stampatrice ottica). Un lavoro artigianale di massima precisione sia per la differente qualità della fotografia sia per il collocamento delle scene da inserire nello schermo del televisore. Regola perentoria, figlia di una tecnologia ancora obsoleta, imponeva che nessuno dovesse attraversare lo spazio tra lo schermo televisivo e la cinepresa.
Federico si sentiva prigioniero di queste soluzioni tecniche che tarpavano le ali alla sua poetica maniera di fare cinema. Era appena iniziata l’epoca sperimentale con la televisione. Le nuove tecniche consentivano di inserire le immagini direttamente dentro i televisori e a Fellini avevano suggerito questo nuovo metodo che permetteva di liberarsi dalla impossibilità di non poter muovere la cinepresa e di non poter interagire con gli attori sul set come li aveva visti con la sua fantasia mentre scriveva la sceneggiatura. Ma la nuova tecnica non era stata collaudata e non avendo tenuto conto che la pellicola cinematografica scorre alla velocità di 24 fotogrammi al secondo mentre la tivù funziona a 25 fotogrammi, si era venuto a creare un conflitto tecnico per cui nell’immagine dentro il televisore passava dal basso verso l’alto una continua riga luminosa. Un’altra grande difficoltà era costituita dal fatto che le tecniche di correzione colore dei due sistemi non si sposavano tra di loro. Un completo disastro altro che miracolo.
Inoltre tutte le scene erano state girate con la macchina da presa in spalla e non fissata sul cavalletto. Altro che cinepresa fissa. In alcune scene addirittura l’operatore inseguiva l’attore che passava di corsa davanti a uno schermo dove proiettavano un filmato, in un altro momento, sempre con la macchina in spalla, l’operatore rincorreva l’attore mentre passava attraverso un’auto con le portiere aperte. Avevo poche probabilità di riuscire a risolvere tutti i problemi che presentava questo nuovo lavoro. Ma se veramente si diceva che Miro faceva miracoli, non ho avuto più nessun dubbio, dovevo provarci. Dopo avere attentamente studiato ogni scena sulla quale bisognava intervenire, decisi che l’unico modo era disegnare manualmente su ogni fotogramma da sostituire le sagome in movimento dei personaggi e di tutti gli oggetti che dovevano sparire per far posto ai nuovi. Praticamente come fosse un cartone animato solo che non erano disegni, ma personaggi veri. Contattai la Videogamma di Giulio e Marcello, uno degli studi di titoli e truke che in quel periodo andava per la maggiore. Erano possessori di cineprese da studio verticali e ne modificammo una per farla diventare anche “proiettante”. Risolto questo problema preparammo il piano di ripresa a passo uno simile a quello per le riprese dei cartoni animati. Intanto mi ero fatto stampare un positivo a perforazione negativa delle scene incriminate. Questo avrebbe risolto il grosso problema di ottenere la massima fissità delle due immagini da accoppiare insieme in truka.
Per il profano la perforazione della pellicola negativa è più piccola e quindi più precisa di quella positiva. Inserendo nella cinepresa modificata la luce di una forte lampada, abbiamo proiettato tutte le immagini sul piano lavoro e ho iniziato con matita e gomma a disegnare le innumerevoli immagini da manipolare. Praticamente ogni fotogramma di tutte le scene interessate alla rielaborazione. Non le ho mai contate, ma saranno state alcune centinaia. Comincio a credere anche io che forse riesco a fare miracoli? Scherzi a parte il lavoro è stato bestiale. Il piano lavoro era a circa 60 cm da terra, la cinepresa a circa 60 cm dal piano lavoro, lo spazio dove dovevo infilarmi per copiare le innumerevoli immagini era di appena 60 cm. Tornavo a casa molto tardi e distrutto dalla fatica ma soddisfatto dai risultati che giorno dopo giorno si rivelavano sempre più efficaci. Stavo facendo una esperienza eccezionale e poi per un film di Fellini. Con Federico si era instaurato un piacevole rapporto di grande collaborazione. Visti i primi risultati mi chiedeva di cambiare la nuova scena già inserita perché mentre montava il film ne aveva trovata un’altra più bella. Per me erano belle entrambe, forse ero io che non riuscivo a vedere la sottile differenza tra le due, oppure forse era soltanto un suo capriccio e i grandi talenti di capricci ne hanno molti.
Il dubbio mi venne quando mostrandogli una scena sostituita, la scena di una cameriera con i capelli molto lunghi che volteggiando tra i tavoli passava davanti a un televisore acceso, gli feci notare che non era venuta bene perché il mascherino dei capelli non combaciava perfettamente con la nuova scena sostituita, mi disse con un mezzo sorriso: «Ma chi vuoi che se ne accorga?! Se vuoi rifarla procedi pure». Io che sono noto anche come mister pignolo, l’ho rifatta. È migliorata, ma non più di tanto, ci ho riflettuto un po’ su e poi l’ho lasciata così, tanto: «Chi se ne accorge!». Se lo dice il grande maestro! Aveva ragione Fellini, non se n’è accorto mai nessuno! La conferma del successo di quell’estenuante lavoro l’ho avuta quando nel 1990 Nino Baragli, uno dei più bravi montatori del cinema italiano, mi chiamò per dirmi che a Federico avrebbe fatto piacere se gli avessi curato anche gli effetti del suo nuovo film La voce della Luna. Dopo l’esperienza del primo film è stato tutto più facile, anche perché le difficoltà erano minori.
Federico mi dimostrava sempre più fiducia. Ricordo con piacere la deliziosa cena consumata insieme alla fine delle lavorazioni del film nel giardino di Annalisa Del Grande, la sua segretaria. C’era Giulietta Masina, mia moglie Franca, Luciano Anzellotti il rumorista, il suo autista e Salvatore e Sandra due miei cari amici fraterni. Passammo una tranquilla serata parlando del più e del meno come succede di solito nelle normali famiglie borghesi, lontano dal clamore mondano che inseguiva Federico in ogni suo spostamento. Eravamo stati tutti molto bravi a non far trapelare né l’avvenimento né il luogo della cena. Mi dispiace di non avere più avuto l’occasione di incontrarlo. È stata una rapida, indimenticabile parentesi che ha lasciato un piacevole ricordo nella mia vita.
Antonio Cavallaro
antonio.cavallaro@rubbettino.it